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REGGIO CALABRIA – Un’organizzazione dedita ad agevolare la latitanza di boss di ‘Ndrangheta è stata disarticolata dai carabinieri di Reggio Calabria, che hanno arrestato 14 persone: dodici sono finite in carcere e due ai domiciliari. Gli indagati sono ritenuti responsabili, a vario titolo ed in concorso tra loro, di traffico ed associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, favoreggiamento personale di latitanti appartenenti alla ‘Ndrangheta, detenzione e porto abusivo di armi da sparo comuni e da guerra.

L’operazione, denominata Gear, è stata condotta nella provincia di Reggio Calabria, Teramo e Benevento, dai Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria e dei Reparti territorialmente competenti, con il supporto dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria, dell’8° Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia, del Nucleo Carabinieri Cinofili, sotto il coordinamento della Procura – Direzione Distrettuale Antimafia – di Reggio Calabria.

L’organizzazione aveva stabilito la propria base operativa in una cava di inerti, a Gioia Tauro. La finalità prioritaria era quella di agevolare la latitanza di pericolosi boss della ‘Ndrangheta. Ma curava, inoltre, un indefinito numero di traffici di cocaina, marijuana, eroina ed hashish e custodiva numerose armi da sparo comuni e da guerra, detenute in modo clandestino, che andavano a rafforzare l’efficacia ed il potenziale delle altre aggregazioni criminali del “Mandamento Tirrenico” della provincia di Reggio Calabria.

L’odierno provvedimento giunge a conclusione di una complessa ed articolata attività d’indagine condotta dalla Sezione Operativa della Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro, sotto il coordinamento della Procura Distrettuale, nel periodo compreso tra il mese di luglio 2017 ed il mese di dicembre 2018. La genesi delle operazioni investigative deve essere riportata agli esiti delle attività di polizia che avevano permesso ai militari di giungere alla cattura dei latitanti Antonino Pesce, Salvatore Etzi e Salvatore Palumbo.

In particolare, il monitoraggio di mogli, fidanzate, parenti e favoreggiatori dei latitanti ha consentito agli investigatori di far emergere la centralità del sito in Contrada Pontevecchio di Gioia Tauro, che poi si è rivelato un vero e proprio snodo delle attività delittuose gravitanti principalmente attorno alle figure dei cugini Girolamo Bruzzese, di 37 anni, Alessandro e Antonino Bruzzese, tutti tratti in arresto. Il monitoraggio della cava ha permesso ai Carabinieri di Gioia Tauro di catturare, il 14 aprile 2018, un quarto latitante, Vincenzo Di Marte, inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi e ritenuto un elemento di spicco della cosca di ‘Ndrangheta Pesce, operante nel territorio di Rosarno, ed irreperibile dal mese di giugno 2015. Una cava, ubicata al centro del territorio di influenza delle cosche della Piana, divenuta base operativa e logistica della criminalità organizzata per tutte le più importanti attività delittuose. Partendo da tale assunto, attraverso metodologie investigative tradizionali combinate con i più moderni sistemi di acquisizione probatoria, i Carabinieri di Gioia Tauro hanno ricostruito la rete degli indagati.

Uno degli arrestati lavorava presso il cantiere della Tav Napoli-Bari, tratto Cancello-Frasso Telesino, a Dugenta (Benevento), una delle quattordici persone arrestate nell’ambito dell’indagine della Dda di Regione Calabria per i reati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, favoreggiamento personale di latitanti appartenenti alla ‘ndrangheta, detenzione e porto abusivo di armi da sparo comuni e da guerra. Si tratta di Girolamo Bruzzese, 37 anni. L’uomo è stato catturato dai carabinieri mentre dormiva negli alloggi del cantiere a Dugenta, al confine tra Casertano e Beneventano; lavora presso l’azienda di costruzioni di Reggio Calabria, «A.b.s. ing srl» di proprietà dell’imprenditore Antonino Serranò, impegnata in lavori in subappalto nel cantiere Tav dove è avvenuto l’arresto.

Per scongiurare i rischi di infiltrazioni mafiose nel cantiere Tav, i sindacati avevano siglato con l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) e le prefetture di Caserta e Benevento un protocollo d’intesa, e nei mesi scorsi avevano più volte chiesto alle due prefetture la convocazione di un tavolo, che ancora non si è tenuto per l’emergenza Covid-19.

Numerose sono risultate anche le armi nella disponibilità degli indagati, a dimostrazione di un’endemica pericolosità sociale dei componenti dell’organizzazione: pistole semiautomatiche calibro 7,65, calibro 9×21, calibro 38 special. Armi che venivano nascoste in borsoni contenenti fino a 30 pezzi in contemporanea, ma anche armi da guerra, come un fucile mitragliatore Kalashnikov. L’operazione ha colpito persone al servizio delle diverse ramificazioni della criminalità organizzata della Piana di Gioia Tauro, proprio nelle attività illecite essenziali alla conservazione ed al mantenimento del potere mafioso.

«La volontà di svolgere periodi di latitanza nel territorio di origine e di influenza – sottolineano gli investigatori -, indica ancora una volta la necessità di mantenere in ogni condizione un contatto diretto con il territorio, al fine di non mettere in discussione la forza intimidatrice della consorteria di appartenenza. Di contro, il capillare controllo del territorio, le capacità informative e gli efficienti approfondimenti investigativi dei Carabinieri sotto il coordinamento e l’indirizzo dell’Autorità Giudiziaria, attraverso una strategia investigativa oculata, hanno garantito la sistematica individuazione dei latitanti e consentito di colpire duramente tutte le attività delittuose tipiche della ‘ndrangheta, nonchè tutti i soggetti, anche non affiliati, che in qualunque forma la favorivano».

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