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Pino Scriva in una foto d'archivio

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ROSARNO (REGGIO CALABRIA) – E’ morto il pentito Pino Scriva, il primo storico collaboratore di giustizia della ndrangheta calabrese. La notizia è emersa ieri mattina nel processo Rinascita Scott in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme nel quale avrebbe dovuto testimoniare. Sono stati i pm della Procura di Catanzaro a consegnare al collegio giudicante il certificato del suo decesso avvenuto in una località segreta per cause imprecisate.

Finisce così la storia della primula della ‘ndrangheta calabrese. Era nato il 2 aprile del 1946 ed era figlio di Ciccio Scriva, uno dei padrini della vecchia guardia della picciotteria rosarnese. Cominciò da “giovane d’onore” affiliato sin dalla nascita, titolo che viene assegnato ai figli degli ‘ndranghetisti come buon auspicio affinchè in futuro possano diventare uomini d’onore e la sua carriera criminale si dispiegò prestissimo con arresti a raffica e fughe rocambolesche dalle carceri, ben cinque.

Imparentato con i Bellocco di Rosarno, Scriva negli anni 70 e i primi anni 80 frequentò ed ebbe relazioni con tutte le più importanti famiglie della ‘ndrangheta del mandamento tirrenico e non solo.

La sua convinzione all’appartenenza mafiosa comincia a crollare nel 1983 quando decide di saltare il fosso. Giurava di voler distruggere la ndrangheta, l’ex bandito dal grilletto facile, affermazione che gli procurò il primo nomignolo nella Piana. Lo chiamavano in maniera dispregiativa il “Canta Calabria” soprattutto nelle carceri calabresi. E a Rosarno sua città natale qualcuno di notte scrisse su un muro delle vecchie case popolari in via Nazionale questa gigantesca scritta: “Scriva quando stavi muto eri solo un cornuto. Adesso che parli a tutte le ore sei mpamu (infame), sbirro e traditore”. Ovviamente nessuno osò cancellare quella frase ancora oggi dopo tanti anni a tratti visibile, pur se coperta da un cartellone pubblicitario.

Dopo la decisione di voler collaborare gli assegnarono una località protetta: un paio di stanze nella caserma dei Carabinieri di Tropea, ma la notte dell’8 luglio del 1983 evase insieme alla moglie, il figlio e la suocera. Una fuga che durò solo 24 ore finendo dalla caserma al carcere nel quale cominciò a minacciare rappresaglie con politici e personaggi di spicco.

L’esordio come pentito lo fa prima il 27 ottobre del 1983 quando raccontò dell’omicidio di Salvatore Monteleone, consumato da Giuseppe Avignone, con la complicità mai confermata in sede giudiziaria dei Mancuso di Limbadi, nell’ambito della faida che insanguinava Taurianova.

«Io vengo dai morti», disse presentandosi per la prima volta al giudice. Poi nel dicembre di quello stesso anno davanti alla Corte d’Assise di Palmi nel processo a carico di Peppino Piromalli ed altri 61 imputati per la faida con i Tripodi ed i Furfaro. Grandi accusatori dei Piromalli Pino Scriva che veniva chiamato dalle gabbie “prostituto” e Arcangelo Furfaro. Presentò un lunghissimo memoriale nel quale ricostruì un pezzo importante della storia criminale nella Piana e dell’intera provincia di Reggio Calabria ed è stato testimone nei più grandi processi di ‘ndrangheta dal 1983 ad oggi.

La sua ultima testimonianza nel processo “’ndrangheta stragista” quando esordì con un pizzico di vanteria, dicendo al Pm Lombardo che: «Se si chiama ‘ndrangheta è perché l’ho detto io». Un personaggio a tutto tondo Pino Scriva, ribelle e suscettibile fino alla fine. Ma è anche grazie a lui se sono emersi nel corso degli anni parte dei segreti e dei lati più oscuri della criminalità calabrese.

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