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Mimmo Nunnari

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di MIMMO NUNNARI

Camminavo con una bomba in tasca e non lo sapevo. Mattina di lunedì 8 novembre stava per scoppiare. Eravamo con Caterina mia moglie sul Corso Garibaldi a Reggio, per la consueta passeggiata, quando si può: una visita alla libreria Nuova Ave, anche solo per salutare Fabio, il patron; una caffè, nel bar di piazzetta Genoese Zerbi, poi il ritorno verso piazza del popolo dove frequentiamo volentieri il mercatino della frutta: un’esplosione di colori, vociante di accenti arabi, africani e reggini naturalmente. Una tipica e magnifica contaminazione mediterranea, un mescolamento di tradizioni, culture, difetti e pregevolezze umane.

Ho avvertito il malessere, quella mattina: una pressione/oppressione al petto e un formicolio al braccio sinistro. Ho chiesto a Caterina di tornare sui nostri passi, fino alla macchina, parcheggiata nei pressi del Museo. Lei, intuendo – le donne hanno una percezione particolare, in tutto – mi ha chiesto se volessi fermarmi, sedermi, da qualche parte, e chiamare il 118. Ho agito d’istinto, e ho risposto no.

Ho pensato che prima arrivavamo in ospedale, meglio sarebbe stato. Siamo arrivati alla macchina, ho guidato personalmente fino al Gom, l’ospedale metropolitano, nonostante le insistenze delicate di lei di guidare. Prima di tutto non volevo si preoccupasse eccessivamente. Al Pronto Soccorso dopo i primi accertamenti mi hanno avviato all’Utic, l’unità di terapia intensiva cardiologica diretta dal dottor Frank Benedetto.

Lì mi sono sentito al sicuro, qualsiasi cosa stesse accadendo ero nel posto giusto. Capivo, però, che non si trattava solamente della conosciuta insufficienza mitralica che da anni tenevo sotto controllo: c’era dell’altro sicuramente, ed è venuto fuori con un esame coronarografico che consente di “ispezionare” le arterie.

Le mie arterie, visualizzate, presentavano non pochi restringimenti e ostacoli che impedivano di portare sangue ricco di ossigeno al cuore: un rischio gravissimo.

Nella stessa serata il dottor Pasquale Fratto, direttore della divisione di Cardiochirurgia, ha deciso che mi avrebbe operato con urgenza. Fratto è un numero uno, nel campo della cardiochirurgia, con studi, esperienza e formazione europea e americana. Semplicità e garbo accompagnano la sua professionalità, e il suo atteggiamento modesto, umile, oltre che qualità sue personali, probabilmente hanno anche radici nell’educazione giovanile salesiana.

A Soverato, dov’è cresciuto e ha fatto i primi studi, ha frequentato l’oratorio e le scuole salesiane. Mi ha operato. Cinque interventi in uno, che la sua eccellente equipe ha definito un “interventone”. Fratto, la sua professionalità, la sua competenza, la sua equipe, mi hanno salvato la vita. La bomba che stava per scoppiarmi in tasca è stata disinnescata, svuotata della sua carica esplosiva. Non è certo il primo “interventone” del cardiochirurgo di origine calabrese, nei cinque anni della sua esperienza al Gom di Reggio Calabria e prima a Milano, e non sarà l’ultimo. Lui, che ha lavorato nel capoluogo lombardo, a Edimburgo, Berlino e nella Cleveland Clinic, negli Stati Uniti, ha vinto la sfida del ritorno nella sua terra d’origine.

Lo dicono i numeri: 1700 interventi in cinque anni, mortalità bassissima e allineamento della divisione di cardiochirurgia reggina agli standard nazionali ed europei.

Scrivo questo articolo, non per raccontare una vicenda personale, il cui interesse poteva benissimo rimanere ristretto nella sfera familiare e delle mie relazioni d’amicizia.

Scrivo per esprimere gratitudine a Fratto ed alla sua equipe, ma anche per introdurre il tema delle disuguaglianze nella sanità, che in Calabria non è più sopportabile.

Per fortuna, ci sono centri di alta competenza in Calabria, nelle diverse branche della medicina, che salvano vite, e limitano le vergognose emigrazioni al Nord per curarsi; ma oltre alle eccellenze in Calabria ci sono, come sappiamo bene, anche voragini spaventose nell’erogazione dei servizi sulla salute che nessuno, fuori e all’interno della regione, ha mai colmato, relegando una terra antica, e molto sofferente, in quei margini del mondo che gli studiosi individuano perlopiù nelle aree coloniali trascurate dei sud del terzo mondo.

Le disuguaglianze nella sanità sono le peggiori: le più ignominiose e crudeli, nel contesto del divario storico tra Nord e Sud dell’Italia.

Faccio ancora un riferimento personale: l’8 novembre (data, per giorno e mese, che coincide col mio malessere) di trentanove anni fa mio padre, Giuseppe, è morto perché allora non esisteva a Reggio una Cardiologia pari agli ospedali da Roma in sopra. Morì, nonostante il ricovero fosse avvenuto in tempo. Morì in Ospedale. Morì perché si trovava in Calabria, e non a Roma, Bologna, Milano, Torino, Padova o altre città del Nord, dove si sarebbe salvato. Morì per disuguaglianza di Stato, perché l’articolo 32 della Costituzione, che garantisce la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, alle nostre latitudini non è mai stato applicato. Quarant’anni dopo la situazione non è cambiata in Calabria.

Considerato il profilo professionale (generali dei carabinieri, prefetti e in qualche esperti, ma giocondi amici degli amici della ditta “rossa” emiliana) dei vari commissari che si sono succeduti, al Governo avranno confuso la salute con l’ordine pubblico o con la lottizzazione politica. Come se a capo di una questura o una prefettura si decidesse di mandare un medico, un professore di filosofia, un carpentiere o un perito elettrotecnico.

Quante morti ci sono state, a causa di questa assurda gestione della sanità? Non saprei rispondere, non ci sono statistiche di questo tipo. L’unica certezza è che i morti ci sono stati, e ci sono ancora. Morti causate dalle differenti opportunità di potersi curare, nel Sud, rispetto al Nord. Morti inammissibili, in uno Stato dove i diritti dovrebbero essere uguali per tutti, come c’è scritto nella Costituzione.

Le disuguaglianze, nella sanità, sono differenti dalle disuguaglianze economiche e sociali, che cataloghiamo, fin dal tempo dell’Unità, nell’ambito della forbice del divario Nord Sud. Nel caso della sanità la differenza non è nel rapporto tra ricchezza e povertà, tra occupazione e disoccupazione, nel tenore di vita o nei servizi offerti al cittadino o nelle dotazioni infrastrutturali, anch’esse intollerabili, ma è un confine tra la vita e la morte.

Chi può contare su un sistema sanitario organizzato ed efficiente, vive. Chi, al contrario, deve contentarsi di strutture e servizi sfasciati, o mancanti, nonostante la bravura dei medici, che sono eroi civili, per la loro dedizione, muore.

Sarebbe esagerato classificare queste morti, per mancanza di un sistema sanitario efficiente e organizzato, tra i delitti di Stato? Penso proprio di no.

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