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Francesco Fortugno

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Sedici anni fa è stato ucciso, in un seggio per le primarie dell’Ulivo attiguo alla piazza principale di Locri, il dottor Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale della Calabria. La personalità della vittima, il suo ruolo nelle Istituzioni, le modalità del delitto fanno di questo caso un autentico “giallo” che a tanti anni di distanza conserva per intero l’alone di mistero. In carcere c’è Alessandro Marcianò, un caposala presso l’ospedale di Locri, e suo figlio.

Entrambi ergastolani ed entrambi ridotti sulla sedia a rotelle per gravi patologie contratte in carcere. Non avrebbero nulla da perdere, eppure continuano a proclamarsi innocenti. Ma al di là delle loro vicende processuali, una cosa appare certa: se il delitto fosse maturato al livello di un caposala e di suo figlio dovrebbe essere derubricato ad uno dei tanti insensati omicidi di paese. Nulla in più.

Invece tutto, iniziando delle modalità del delitto, fanno pensare che non è così. Fortugno è stato ucciso dopo pochi mesi delle elezioni regionali ed era politicamente legato al presidente della Regione, Agazio Loiero, un politico di lungo corso – già ministro – che conosceva meglio d’ogni altro la macchina amministrativa ad ogni livello.

L’assessore alla sanità era Doris Lo Moro, magistrata, con fama di “riformatrice” e “moralizzatrice”. La Calabria in quegli anni aveva sognato una svolta radicale soprattutto nel mondo della sanità che già mostrava le prime serie crepe in quanto ostaggio di interessi privati e costretta a subire seri condizionamenti da parte di un oscuro “cartello” che gravita intorno a quel “mondo”.

C’è chi sostiene che i colpi di pistola sparati contro Fortugno in realtà servirono a fermare ogni tentativo, sia pur timido, di riformare la sanità regionale e stroncare sul nascere ogni velleità di liberarla dalla morsa che tuttora la stringe.

Le minacce, quasi in contemporanea, contro Loiero sono la controprova che quei colpi di pistola portavano la firma dei potentati “economico-politico-mafiosi” che in Calabria hanno sempre controllato tutto, anche il respiro, e che per salvaguardare i propri interessi non hanno mai esitato e ricorrere al delitto. Da Melissa a Locri passando per Catanzaro e per Reggio.

L’ospedale di Locri, la città in cui Fortugno viveva, era un concentrato di interessi perversi. La commissione “Basilone”, nominata dopo il delitto, scrisse che l’ospedale era “militarmente occupato dalla mafia” ma non seppe o non volle andare “oltre” per capire che la penetrazione della ndrangheta non avrebbe potuto aver successo se non avesse avuto serie coperture nel mondo economico, della politica, della magistratura, delle professioni e delle forze dell’ordine.

Queste cose le ha scritte, in quegli stessi anni, Giuseppe Cascini in un libro sulla sua esperienza di magistrato nella Locride. (Ma nessuno sembra abbia voluto “leggere” il libro).

In seguito all’omicidio Fortugno, Locri fu l’epicentro di un vasto movimento di giovani che al grido “adesso ammazzateci tutti” chiedeva una svolta…. che non c’è mai stata nonostante la spinta d’un largo movimento democratico trasversale. La sanità oggi – da Locri a Cosenza – e più di sempre è nelle mani di quei gruppi (intoccabili) che metaforicamente firmarono il delitto. E che, malgrado la nomina ai vertici dell’azienda sanitaria regionale di generali, questori, di commissari antimafia, non riescono a scardinare la stretta che soffoca la Calabria senza mai mollare la presa. I cortei di ragazzi non percorrono più le strade di Locri né della Calabria. Tutto s’è normalizzato.

Fortugno viene opportunamente e giustamente ricordato ogni 16 ottobre…. ma è troppo poco. La sua morte grida giustizia. È amaro constatare che la lotta alla ndrangheta malgrado i tanti successi che hanno avuto una vasta eco sui giornali e sulle televisioni nazionali, qualche volta sembra coprire una drammatica verità: il “cartello” che con molta probabilità ha condannato a morte Fortugno (e bloccato ogni tentativo di riforma nella sanità e non solo), oggi è più forte che mai.

Supera indenne le tornate elettorali, i commissari, le retate, le grandi inchieste. Qualcuno potrebbe obiettare “.. ma gli esecutori materiali del delitto sono in carcere…” Troppo, troppo poco, per dire che “Giustizia è fatta”!

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