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UN maresciallo del Ros l’ha vissuta, una giovane scrittice l’ha narrata. Il risultato è un libro che, pur segnando chiaramente il confine tra quelli che stanno dalla parte della convivenza civile e della legge e quelli il cui obiettivo è infrangerla e vivere di violenza, non dispensa giudizi morali a buon mercato. Un libro che mostra delinquenti e poliziotti respirare la stessa aria, spiarsi a vicenda, condividere giornate, settimane e mesi nel grigiore della routine in attesa che qualcosa accada. Qualcosa che possa dare la vittoria ad una delle due parti: la parte di chi fugge o di chi insegue, di chi si nasconde o di chi indaga. “La Mala Vita” (Sperling & Kupfer, 2012) Nino Maressa l’ha vissuta, Flavia Piccinni l’ha narrata. A quattro mani un maresciallo del Ros e una scrittrice già vincitrice del Campiello Giovani, hanno messo insieme un romanzo, perché di questo si tratta, che sapientemente narra la latitanza durata molti anni di persone che hanno commesso terribili delitti, ma che, costretti a nascondersi come talpe, mostrano debolezze e lati umani che la pubblicistica oleografica non ama raccontare.

 

 

 

Fatti, persone, luoghi che hanno origine nella tragedia umana di un’organizzazione spietata la cui unica risposta alle difficoltà dell’esistenza, alle offese subite e alle bramosie di potere è quella della violenza, del sangue, della morte. Da questo scenario tragico nascono le storie di latitanza e di ‘ndrangheta in cui è stato coinvolto il maresciallo calabrese Nino Maressa e che lo stile narrativo agile e l’amore per la Calabria di Flavia Piccinni, hanno saputo fissare in una maniera diversa dalla, ormai copiosa, letteratura sulle ‘ndrine calabresi. I luoghi sono quelli della zona Jonica reggina, della Piana, dell’Aspromonte. I personaggi sono i maggiori rappresentati del crimine della provincia di Reggio Calabria: Morabito, Bellocco, Tegano, Pelle, Nirta. Latitanti di peso che negli anni sono stati tutti catturati anche per la testardaggine e l’impegno di uomini delle forze dell’ordine che li hanno inseguiti in montagna, nei paesi, nei cunicoli sotto terra e nei nascondigli segreti costruiti dentro abitazioni signorili da muratori specializzati in bunker per latitanti.

 

 

 

Il racconto di Maressa e Piccinni è narrato in prima persona, diretto, senza giri di parole. E’ una piccola epica della lotta tra il bene e il male con momenti in cui l’esatto confine tra queste due categorie umane non è ben definito. Un racconto ovviamente scritto da una parte, ma nel quale la riflessione sulla condizione umana dei latitanti – delinquenti che hanno commesso reati molto gravi – costretti a vivere come animali braccati, è presente anche in chi dà loro la caccia e troverà soddisfazione solo quando li avrà catturati. La “mala vita” nel libro è duplice: del delinquente che agisce con violenza ed è costretto a nascondersi per evitare il carcere a vita, ma anche dei militari che gli danno la caccia in condizioni estreme: al freddo, tra i boschi, senza dormire o potersi cambiare. Come dice il libro: uomini che devono vivere come bestie per inseguire le bestie. Le ore e le giornate estenuanti di chi fa gli appostamenti assomigliano ai mesi e agli anni passati dai latitanti nei loro nascondigli senza poter uscire. Muoversi, distrarsi, avere una vita sociale spesso è molto difficile anche per chi insegue, per chi è costretto a non misurare i giorni e le notti nell’attesa della cattura.

 

 

 

A dispetto di alcuni retroscena rilevanti che il libro disvela e che fanno sorgere dei dubbi su alcune indagini, su arresti mancati, su telefonate attese e forse mai arrivate, la valenza massima del libro risiede nella sua narrazione. Nel racconto di un mondo in bilico tra l’arcaico e il moderno, un universo poco noto e per questo poco compreso. L’antropologia del latitante – categoria umana in via di estinzione ma ancora comunque ben presente nelle regioni del Mezzogiorno – è analizzata tramite i fatti quotidiani, nella lotta continua tra il gatto e il topo, ognuno cosciente della presenza, più o meno vicina, dell’altro e nei tentativi di averla vinta di una delle due parti. Nei nascondigli che quasi sempre ospitano una piccola statua della Madonna della Montagna, nella stravagante e singolare speranza che la Vergine possa proteggere delinquenti e assassini. Il libro di Maressa e Piccinni non nasconde i constrasti tra i carabinieri, ma allo stesso tempo racconta di boss che dopo la cattura diventano improvvisamente persone insicure con ansie da uomini normali. Persone con un notevole spessore criminale che talvolta rivelano fragilità che il loro personaggio è obbligato necessariamente a nascondere.

 

 

 

Un altro elemento che il libro disvela è la vita delle famiglie dei latitanti. Leggendolo si conoscono i gesti quotidiani di chi spesso aiuta e sostiene i latitanti, si respira il clima di parenti che sanno di essere controllati e devono stravolgere le vite di tutta la famiglia per non dare un qualche vantaggio agli inquirenti. Persone che per anni vivono situazioni di stress non semplici, costretti ad ingaggiare una lotta informativa e di nervi con chi è alla ricerca dei loro familiari. “La Mala Vita” conferma anche lo stretto legame tra i latitanti e il loro territorio. Nella vita e perfino nella morte, il mafioso non si allontana dal suo mondo. Soltanto lì si sente sicuro. Anche da morto non si farebbe sotterrare lontano dal suo paese. Pur se ormai la ‘ndrangheta è planetaria, i suoi capi sono fortemente legati alla loro terra, ai loro paesi. Paesi spesso infelici, paesi che purtroppo sono noti per i latitanti che nascondono e non per la vita onesta e difficile della grandissima parte dei loro abitanti.

 

 

 

Il racconto scorre veloce e spinge chi legge a scorrere le pagine per scoprire come ogni caccia termina. Per vedere quale errore o sottovalutazione di un avversario avvantaggia l’altro, in un gioco di scacchi in cui la posta è, da un lato, la libertà o una sua parvenza e dall’altro il rispetto del diritto. Leggere per conoscere qual è l’evento che, dopo mesi di attesa, sblocca la situazione e permette lo scacco finale. Questo “gioco” di strategia è comune alle tre parti del romanzo che, in effetti, contengono tre storie simili che si svolgono su una scacchiera unica con pedine che si fronteggiano e lottano strenuamente fino alla fine. Il libro finisce con la postfazione dell’autrice, che ha conosciuto i paesi e i luoghi teatro delle azioni descritte nel libro. Una postfazione che contiene parole intense su un mondo difficile da comprendere e da vivere, un mondo offeso da delinquenti e latitanti, ma che va indagato e capito al di fuori dei facili luoghi comuni, perché, come ha scritto Corrado Alvaro, la vita della gente d’Aspromonte è ancora oggi una vita “piena di pietre e di spine”.

 

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