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Un mantra silenzioso, interiore, ci mette di fronte alla stessa domanda tutte le volte: da dove arriva questo male, da dove arriva, da dove mai arriva. Si mescolano le grandi ingiustizie della Storia alla Storia, ai fatti, alle ingiustizie di oggi, che si compiono sotto i nostri occhi: così il ricordo, in questi giorni, della strage di Sant’Anna di Stazzema, il paesino dell’Alta Versilia dove avevano trovato rifugio migliaia di persone in fuga dalla guerra e dai bombardamenti, che all’alba del 12 agosto di 76 anni fu circondato da tre reparti della 16esima divisione Panzegrenadier delle SS, scortati da bande di fascisti, italiani come lo erano le vittime, mentre un quarto reparto bloccava più a valle ogni via di fuga, quando 560 civili furono massacrati, la grande maggioranza di essi donne e minorenni e bambini, si fonde col quotidiano massacro fisico e psicologico dei migranti in fuga dalla follia della guerra e della fame delle loro terre: leggiamo impietriti delle storie di quelle mamme e di quei figli di Stazzema (rimasti senza giustizia) raccontate dai superstiti, e impietriti leggiamo, nella minuziosa inchiesta del New York Times, della Grecia che ne imbarca a decine di donne, uomini e bambini per poi lasciarli al loro destino. Spesso di morte, quando morte significa anche, soprattutto, diventare fantasmi da vivi. Da dove proviene, questo male? La Grecia del mito del viaggio, dell’accoglienza dello straniero al quale non veniva chiesto il nome e la sua storia se non prima soccorso e rifocillato, lavato, vestito, come Ulisse alla corte di Alcinoo. Un mito che crolla, se oggi prevale (e vince, clamorosamente) quel mostruoso occhio di Polifemo, forse il nostro occhio, che invece di vestire sveste lo straniero, l’altro, di ogni considerazione, statuto, dignità. Sentiamo ancora una volta quella domanda: perché, e quando siamo diventati Polifemo?

Cercando risposte, pensiamo a quel Male forse interamente incosciente di sé descritto in Cuore di tenebra, il nostro, dove Joshep Conrad parla del colonialismo europeo del XIX secolo come un male grande ma inconsapevole, visto che i suoi protagonisti erano convinti di fare il bene e portare ricchezza alle nazioni del Continente, quando arricchirsi era (è) considerato da tutti, da sempre, il bene. Pagine di imbarazzante attualità (il romanzo uscì nel 1902), visto che la convinzione dei potenti e di larga parte del sentire comune dell’Occidente sia quella che l’altro non abbia una storia, una cultura altrettanto degna e alta, sentimenti. Lorena Fornasir è stata spesso nostra interlocutrice e compagna di viaggio in queste riflessioni in quarantena. La psicologa triestina, che con la sua associazione Linea D’Ombra aiuta chi arriva in Italia dalla rotta Balcanica, la rotta del terrore nell’Europa non dei barbari, ma della civiltà, ci fa notare come non si parli mai “del trauma psichico che abita l’anima di questi ragazzi”, che pure in mezzo a un inferno quotidiano lottano con ogni forza, e di quella “incredibile capacità che hanno di sopportare le cose peggiori mantenendo tuttavia sempre il loro dolce sorriso, al punto di chiederci scusa solo per il fatto che li stiamo curando. Per questo abbiamo molto da imparare da loro: sono stati così vicini alla morte che la vita che trasmettono è una sorgente di autenticità”.

Pensiamo alle incoscienze di molta parte dei nostri, invece, di ragazzi. Al loro cuore di tenebra che ci smaschera tutti, ammettiamolo, con le nostre responsabilità in fila una dietro l’altra, quando assistiamo a fatti altrettanto osceni come una strage, perché l’origine è sempre quel male a cui comodamente ci abbandoniamo assecondando una sete innata di potere e prevaricazione e avidità primitive, selvagge. Incontriamo attoniti pochi anziani nel centro storico di Diamante; ci raccontano, ancora sotto shock, di quando poche sere fa dalle loro antiche case affacciate sul mare di quel magico villaggio, quasi un presepe, costruito pressoché a strapiombo su una scogliera del Tirreno come da una mano divina, hanno sentito le urla impazzite di qualcuno che si massacrava a vicenda di botte proprio lì, su quel lungomare che ha uno sguardo sfacciato all’orizzonte da far perdere il fiato ai poeti. Una battaglia folle a colpi in faccia, sul capo. E volti sfregiati, sangue. Perché? Un regolamento di conti tra giovani venuti da fuori, legati alla malavita, informano le cronache. Ma non fu lo stesso due anni fa, quando uccisero un ragazzino fuori da una discoteca? E non era la mala, era stata un’occhiata in più a una ragazza, proprietà intoccabile, nemmeno con gli occhi. Può essere sufficiente, uno sguardo, a sentenziare una condanna a morte? Sì. Lo è. Come è sufficiente sentirsi dire “non ti amo più” per uccidere. Quelle stesse donne di nostra proprietà che difendiamo dalla vista del nemico con il coltello, uccidendolo. Cento donne ogni anno assassinate in Italia da mariti, fidanzati, padri o anche fratelli, con il 90 per cento delle violenze di genere che avviene in famiglia. E c’è chi, ancora, batte sulla tesi secondo cui sarebbero gli immigrati il vero problema. Lo straniero da cui doversi guardare. Lo straniero che porta con sé il Covid da paesi lontani, sconosciuti, e insieme con il virus anche tutto quel male che invece abbiano noi dentro, ciascuno, quando stranieri siamo noi a noi stessi. Se ci guardassimo davvero allo specchio, sarebbe spaventoso. Tuttavia, forse, salvifico. Può darsi che voltandoci, all’improvviso ci renderemmo conto di chi siamo, di quanto disagio abbiamo nelle viscere che ci costringe, inconsapevoli, alla violenza, al rifiuto dell’altro.

E quanto poi siamo piccoli e incoscienti negazionisti di ritorno. Tra i lidi balneari delle coste assistiamo come a un universale “stappo” di champagne, conseguente alla costrizione della clausura. Noi tutti come bollicine impazzite, ubriache di libertà, a celebrare la fine del vecchio uomo compresso, rinchiuso, privato. Non sono bastati i morti, non i carri dell’esercito a sfilare nelle notti di Bergamo, non bastano i nuovi numeri che ci stanno col fiato sul collo oggi come prima del lockdown: doveva essere l’estate della prudenza, che avrebbe dovuto preservarci dallo spettro di nuove chiusure, a discapito dei più deboli, dei lavoratori fragili (non dei ristoratori Gianfranco Vissani style, con i loro conti in banca milionari e pure la faccia di presentarsi a piangere da Porta a Porta o nelle aggressive trasmissioni di Mediaset); è diventata invece l’estate dell’eruzione vulcanica, del magma colato su una vita ritrovata che tutto è tranne che quella sorgente di verità negli occhi innocenti dei fuggiaschi che incontriamo a Trieste: feste da mille e più persone, assembramenti al bar e al banco salumi dei supermercati, zero rispetto delle regole, anche le minime, tavolate di Ferragosto. E masse disperate, oggi, per le discoteche chiuse (quando non andavano affatto aperte). Senza uno sguardo altrove, senza un ripensamento.

Sappiamo di correre il rischio di ripeterci in queste note. Ma lo facciamo di proposito. Martelliamo perciò scientificamente su un punto: è da ciascuno di noi che davvero dipenderanno le sorti degli altri, e quindi di noi stessi. Non possiamo più attendere, non possiamo più non sapere, non abbiamo più il tempo. Quello che ci resta dovrà servire a costruirne uno nuovo, un tempo tutto nuovo, un uomo tutto nuovo. Gianni Rodari scriveva: conosco un bambino così povero/che non ha mai visto il mare:/a Ferragosto lo vado a prendere/in treno a Ostia lo voglio portare/”Ecco, guarda, gli dirò/questo è il mare, pigliane un po’”/Col suo secchiello, fra tanta gente, potrà rubarne poco o niente:/ma con gli occhi che sbarrerà/il mare intero si prenderà/. Ecco, voltiamoci, di scatto. Gettiamo quell’eterno cuore di tenebra, andiamoci a prendere quel bambino.

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