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Willy Monteiro Duarte

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“Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio”. Pierpaolo Pasolini profeta, ancora una volta. Nel cortometraggio La Ricotta, all’interno del film a episodi Ro. Go. Pa. G., dà voce a Orson Welles (doppiato tra l’altro da Giorgio Bassani, autore di quel capolavoro sulla tragica vicenda umana e storica delle leggi razziali fasciste che è Il giardino dei Finzi Contini), nel ruolo di regista-marxista, intervistato da un giornalista a cui così risponde. Era ciò che Pasolini pensava della società italiana, e già negli anni ’60: il finto progresso, l’edonismo, la tecnologia, il benessere a tutti i costi, la finta tolleranza, avevano fatto forse più danni del Ventennio. Più tardi, a novembre del 1975, il “Corriere della Sera” pubblicherà, postuma (il poeta era stato ucciso il 2 di quello stesso mese, con un brutale pestaggio), una spietata, illuminante riflessione: “… non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia… e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani.. che in Italia c’è il coprifuoco… che la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie…”.

Arriva da lì, questo guasto. Willy Monteiro Duarte si è preso i pugni e i calci in faccia di quattro ragazzi senza consapevolezza. Ubriachi di news dal sottosuolo, come tanti ragazzi delle periferie italiane e mondiali fuori rotta. Tuttavia, non ce ne vogliate, anch’essi vittime. Forse più di Willy: una generazione di ignorati, di non amati, di carnefici-martiri. Martiri di un oblio mortale, replicanti senza sentimenti perché, questi, non inseriti nelle schede del cuore. Mai conosciuti, perciò. Vissuti nella violenza, conoscono soltanto questa: non hanno altri alfabeti, altre parole, non hanno abbracci, se non quelli che puzzano di sudore e ancora tremanti di accanimento sul ring. Uno dei familiari degli assassini ha detto che in fin dei conti era solo un immigrato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che Willy si è preso i pugni e i calci in faccia nostri, di una società indifferente, che abbandona, che non si volta, che non sa educare, che forse non ha mai saputo farlo perché non educata, non amata. Figlia di una pedagogia nera. Quella della correzione e del condizionamento psicologico, sin da piccoli. Schiaffi, urla, pestaggi, a scuola, a casa. Azioni radicate, trasmesse da una generazione all’altra che hanno lasciato, come dicono gli esperti, “catene invisibili di veleno”. Sono i pugni dell’uomo medio di Pasolini.

Però Willy è figlio nostro, e sta dalla parte dell’umanità che ancora costruisce, che ancora spera, che ancora non si arrende. E sono figli nostri tutti, perché è necessario sempre sganciare lo sguardo, allungare il collo, osservare lontano. Così anche Jacob Blake è nostro figlio. Jacob che domenica scorsa a Kenosha, nel Wisconsin, si è preso una raffica di colpi di pistola alla schiena senza che ancora si conosca il motivo per cui un agente si sia accanito in quel modo. “Perché mi hanno sparato così tante volte?”, ha chiesto Jacob appena sveglio dopo l’intervento che gli ha salvato la vita ma non le gambe. Perché? Forse perché afroamericano. Forse perché nero. Forse no. Forse perché a quei poliziotti che sparano nessuno ha insegnato nulla quando erano bambini, e innocenti. E oggi poliziotti assassini. Anche Deon Kay è nostro figlio, e aveva soltanto 18 anni: mercoledì scorso protestava con il movimento Black Lives Matter a Whashington D.C. quando i cops gli hanno sparato uccidendolo. Sarà sempre nostro figlio Ahmaud Arbery, ucciso a fucilate in Georgia. Per lui cercheremo fino alla morte giustizia. Era, quel figlio, un ragazzino che amava correre.

Aveva lo stesso sorriso di Willy. Forse però ha ragione Emmanuel Edson, poeta, drammaturgo, fine intellettuale del Camerun, in Italia da vent’anni: il razzismo non c’entra con il pestaggio di Colleferro. “Willy si è fermato per difendere un compagno di scuola – dice al telefono, la voce rotta –, è stata la spedizione punitiva di una gang, sarebbe stato ucciso anche se fosse stato bianco. C’è una grande sottocultura, quando giri lo vedi, si sente. Ma c’è una sottocultura anche nei quartieri migliori, tra le famiglie agiate. Nell’insieme, è spaventoso. Ho paura per mia figlia, devo ammetterlo, ma qui a Milano forse è diverso. Roma è una città violenta. E Willy, ammazzato per un gesto altruista, poteva essere figlio di tutti noi”. Pensa lo stesso Antonio Biafora, chef stellato che lavora in Sila, in un resort tra i monti calabresi di Camigliatello, dove per un breve periodo il piccolo Willy aveva collaborato. Uno stage indimenticabile. Faceva divertire tutti, e tutti lì ricordano soltanto il suo sorriso, le sue battute in romanesco: “Uno spasso – racconta Antonio, sotto shock –, ma soprattutto una persona splendida, uno che faceva sempre un passo indietro, gentile, educato. Che grande dolore, sento ancora la sua voce accanto alla nostra, le risa quando mangiavamo tutti insieme, o uscivamo a bere una birra. Come una squadra di calcio eravamo”. In quella squadra “gioca tuo figlio, tuo fratello, un tuo amico, tuo nipote, tuo zio, tuo padre, il figlio di un amico, il tuo panettiere, il tuo meccanico, il tuo compagno di scuola o di fabbrica”, ci ricorda in un post su Facebook la società di calcio del Paliano. A Willy piaceva giocare a pallone, era un giocatore di quelli bravi e coraggiosi, come canta De Gregori. Di quelli che si vedono dall’altruismo e dalla fantasia. Un branco non ne sa nulla, e può uccidere.

Occorrere chiedersi chi hanno alle spalle i quattro lupi feriti senza amore, senza nulla. Se a fallire siano stati davvero loro, oppure le famiglie dalle quali provengono. E noi tutti. Questo, diciamocelo in faccia, è un paese che uccide i ragazzini, i bambini. Di essi non si sopportano più le lacrime. Un mondo che ha tempi da vertigine non ha un istante per asciugarle, per chiedersi che cosa vi sia dietro. E dentro. Una umanità che ha dimenticato (o non mai ha saputo) che ci sono Moby Dick e la furia del capitano Achab in quel pianto, e tutte le nostre ossessioni di bambini poco amati e soli; e l’Odissea, il viaggio, Ulisse e la sua Itaca, ci sono I ricordi dal sottosuolo e la Recherche, gli Ossi di seppia, le Variazioni Goldberg, e Rimmel, e Yesterday: quelle lacrime, quelle urla, ci parlano della vita e della nostra storia tutta intera che si rinnovano come in una grande letteratura ogni volta che un bambino viene sulla Terra. Quel pianto è, anzi, la Grande Letteratura del mondo. Un racconto ininterrotto sul mistero, sulla struggente bellezza della vita. Occhi nell’oblio, non vi leggono nulla. Occhi innamorati, un’opera inesauribile. Uno scritto perenne a ogni incontro, una melodia celeste a ogni passo, a ogni mano che prende un biscotto, a ciascun sonno cullato. Evan, esempio tra gli esempi dell’ultima cronaca, il bambino di Modica a cui il compagno della madre, e lei complice, ha fracassato il cranio. Non aveva diritto di piangere, Evan. Doveva essere spento, rotto come un giocattolo, sbattuto in terra come una bambola col meccanismo del canto incagliato. Schiacciava con le spalle al muro quel pianto, pesava insopportabilmente la responsabilità di prendersene cura. Ammazzarlo è stata la via più semplice. La stessa strada che sempre più spesso decide di intraprendere il mondo: secondo l’ultima Report Card 16, lo studio lanciato dal Centro di Ricerca Innocenti dell’Unicef, suicidi, infelicità, obesità e scarse capacità in campo sociale e accademico sono diventate caratteristiche fin troppo comuni fra i bambini nei paesi ad alto reddito. C’è anche, e ben evidenziata in questo studio, l’Italia. Un fallimento generale. Restano le nostre analisi, i nostri pensieri stanchi, tuffati con noi sul divano, avviliti, sulla morte di nostro figlio Willy. Resta, in fin dei conti, quel mucchio di insignificanti e ironiche rovine. Come scriveva Pasolini.

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