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E’ la stagione delle piogge, tutto il Sahel rifiorirà. Dove prima c’era solo sabbia rossa e arbusti secchi, rinascerà la vita. Fiori bianchi, azzurri, viola e timidi fili d’erba cominciano a farsi strada tra la sabbia e il paesaggio cambia.

Sono scrosci improvvisi, annunciati da un vento impetuoso che solleva la sabbia talmente in alto da formare grandi nuvole rosa che viaggiano oltre i confini stabiliti dagli umani.

La sabbia, trascinata dal vento, supererà il mare e cadrà sulle nostre città. E le nostre case, le nostre strade, le nostre auto avranno addosso un sottile manto rosso regalato dall’Harmattan Haze, il vento travolgente che “mescola la sabbia” del deserto.

-Il viaggio da Niamey a Maradi è insolitamente tranquillo-, dice il pilota dell’aereo-ambulanza che mi trasporta.

-In questa stagione si balla per il vento, per i temporali improvvisi- chiosa.

Ringrazio la mia buona stella e guardo fuori dall’oblò.

Dall’alto il panorama è una tela gigantesca. Un enorme quadro surrealista, giurerei un Pollock, scorre sotto i miei occhi. La pioggia, che ha inondato il paesaggio, ritirandosi, ha lasciato le sue eterne impronte: ghirigori viola, spighe di grano verde scuro, linee rette e semicerchi di colore  bruno sono impressi sul terreno, plasmati dall’acqua, fissati dal sole.

A pensarci, è come se l’entropia che domina l’universo, qui, si fosse fermata e da entropico, l’universo, su questa sabbia, sia divenuto razionale, ritmico, capace di infondere bellezza con un uragano d’acqua, col soffio capriccioso del vento, col calore indomabile del sole.

Maradi che ti investe di povertà

A Maradi la povertà non solo la vedi, ma la annusi. Qui la povertà ti colpisce i sensi, tutti, nessuno escluso.

E in questa povertà, che vedi nei bambini mezzi nudi, stracciati che rincorrono le macchine mendicando pochi spicci, nelle giovani madonne con indosso chador sporchi, che ti guardano con occhi di una bellezza dolente, nelle strade gonfie di plastica, allagate da scarichi fognari a cielo aperto capisci, capisci che il mondo, il mondo che noi credevamo di conoscere non esiste, non è mai esistito.

Esiste un altro mondo, un mondo reale che teniamo nascosto sotto il tappeto buono, che non vogliamo far vedere, che non vogliamo vedere e questo mondo, che fa parte di noi, che non possiamo scrollarci di dosso, per quanto lo desideriamo, è quello che ci consente di avere le nostre comodità, le nostre lenzuola bianche, i nostri letti comodi.

Qui la Francia, quella di Voltaire, quella della Bastiglia, quella di Libertè, Fraternitè, Egalitè, l’ha fatta da padrona per anni e ancora gioca un ruolo determinante. E’ difficile pensare per uno come me, che ama la Francia per il suo coraggio storico, per la sua Rivoluzione, che sia proprio il Paese dell’Encyclopèdie a non riuscire, volere, o potere, trovare soluzioni giuste per questi stati sub-sahariani sfruttati per anni, impoveriti dal capitalismo selvaggio, che mai potranno essere risarciti veramente.

Qui dove muoiono i bambini come in nessuna parte del mondo

In questo posto, gli indicatori sanitari della mortalità infantile sono fra i più alti al mondo: sotto i cinque anni muoiono 100 bambini su 1000. La speranza di vita media è di cinquantacinque anni. L’analfabetismo è dell’81%. L’accesso all’acqua potabile è garantito solo a cinque persone su dieci.

Il Niger, di contro, ha importanti risorse naturali, uranio, petrolio, carbone, oro, molibdeno. Queste risorse potrebbero sembrare una manna, certamente cambiare il Paese, ma sono, invece, una maledizione perché hanno acceso una guerra endemica, senza fine, bestiale, tra africani, europei, cinesi, turchi, americani per il loro controllo.

L’aereo si posa leggero, quasi non mi accorgo di essere atterrato. Sotto un enorme capannone, poco  più in là della pista di atterraggio, stazionano due caccia Mirage. Gli autisti, questa volta, sono due soldati dell’armèe francaise, mi accolgono sorridenti, mi fanno subito indossare giubbotto antiproiettile ed elmetto. Ci scortano altri soldati su delle jeep blindate.

A pochi passi dei militari nigerini osservano attenti la scena.

Uno di loro, di guardia al gate dell’aeroporto sta seduto, col suo Kalashnikov sulle gambe e guarda a malapena avanti a se, poi abbassa la testa, prova ad accendere una sigaretta.

Si parte. Le ruote del mezzo blindato che mi trasporta, un Iveco, mangiano la polvere. I finestrini sono spessi almeno tre dita, la corazza è da carro armato, ma questo elefante di metallo si muove agile come non avesse tutte queste tonnellate addosso.

Lungo le strade di Maradi, la terza città più grande del Niger, circa duecentomila abitanti, gli alberi hanno spruzzi di colore nero e bianco appollaiati sui rami. Guardo incuriosito, ma non ci sono ali, non ci sono occhi luccicanti a squarciare quel nero, quel bianco. Solo da vicino mi accorgo che quelle macchie altro non sono che lo svolazzare triste di brandelli di plastica che il vento ha depositato in alto. Li ha sollevati dai marciapiede, dalle strade polverose, dove dormono a quintali, e li ha incollati ai rami secchi degli alberi.

I viali che percorriamo sono pieni di motociclette. Sopra i marciapiede, sbriciolati, decine di baracche offrono bottiglie di benzina insieme a mango e banane. Bambini corrono forse dietro un pallone, qualcuno di loro fa un saluto alla colonna.

Queste strade-mulattiere, questa umanità disperata è, per il cuore, uno stillicidio continuo. Ti verrebbe voglia di abbassare il capo, di chiudere gli occhi. Certo, puoi decidere di tenerli aperti ma, se decidi di tenerli aperti, devi spingerti fino in fondo.

Devi spingerti tanto in fondo da comprendere che nessuno, per quanto lontano viva da questo posto, per quanto forte sia, può salvarsi da solo.

Nessuno, africano o occidentale, americano o francese che sia. Bianco o nero che sia.

La colonna corre, attraversiamo in fretta la città e ci immettiamo sulla Trans-Sahelian Highway.

La lingua d’asfalto che taglia il Sahel

L’autostrada che attraversa il Sahel non è come la nostra immaginazione vorrebbe. Non è a doppia corsia: è una semplice lingua d’asfalto posata sulla sabbia. Una specie di statale jonica su cui transitano decine e decine di moto e camion scassati con bambini e adulti seduti sui cassoni e sopra il tetto della cabina del guidatore. Cantano, urlano, salutano.

Ho la sensazione di essere entrato in una pellicola neorealista. Una pellicola in bianco e nero che mi porta indietro negli anni, anni in cui noi italiani viaggiavamo su auto e camion scassati che percorrevano semplici lingue di asfalto posate sulla terra nuda.

Fantastico con la mente e mi verrebbe il desiderio di dire a mio padre, che immagino seduto a guidare: vai piano per favore papà, voglio guardare ancora per un poco come eravamo un tempo.

Il sole sta per calare e il capo colonna comunica che il nostro campo è a poche centinaia di metri. Infiliamo, a velocità sostenuta, un lungo viale protetto ai lati da centinaia di copertoni di camion.

Un ibis nero si alza in volo e uno stuolo di soldati nigerini si mette sull’attenti. Ci fermiamo al check point d’ingresso al campo, da lontano lampi squarciano l’orizzonte rosso scuro. Forse stanotte pioverà.

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