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SUL finire dell’estate del 2009, Wim Wenders venne in Calabria per girare un cortometraggio romanzato sugli sbarchi di curdi lungo la costa di Badolato del ’97. Arrivò con in mano una sceneggiatura di fiction e una tabella di produzione decisamente strutturata: con i tempi, le location, le scene, gli attori protagonisti (tra i quali il compianto Ben Gazzara e il versatile Luca Zingaretti) e le marginali comparse, scelte anche tra i molti rifugiati afghani ospiti del progetto Sprar di Riace. Ma quando prese coscienza che quei fugaci volti muti portavano con sé vicende umane uniche, il regista de “Il cielo sopra Berlino” fece quello che altri cineasti non avrebbero fatto mai: cambiò la sceneggiatura. E quel piccolo esperimento di fiction in 3D stereoscopico – tecnologia iperrealista utilizzata per la prima volta in un lavoro del genere – divenne un grande capolavoro di documentarismo moderno. Il maestro tedesco salvò buona parte delle scene girate a settembre, ma a dicembre tornò a Riace (luogo non previsto per le riprese) per dare voce alle struggenti storie di Valentino, Sabir e Ramadullah, ragazzini serbi e afghani che nella sceneggiatura originaria avrebbero solo dovuto scambiare un paio di calci di pallone con il piccolo protagonista italiano. E ora il film, triplicato nella durata, si conclude con una piazza dapprima vuota di un paese spopolato della Calabria che lentamente si riempie di volti, nomi e storie.

Ogni giorno, giornali e telegiornali sono invece pieni di cronache di migrazioni in cui, con un lessico inappropriato e striminzito, si utilizzano  termini “negativi” come immigrato, extracomunitario, clandestino; anche quando l’intenzione dell’autore è quella di mostrare aspetti positivi dell’integrazione, dello scambio culturale e della convivenza tra i popoli. E per dare corpo a questa critica deontologica della professione sarebbe bastato riportare brani letti o sentiti di recente, a mo’ di esempio. 

Domani mattina, presso la sala convegni della redazione centrale del Quotidiano, a Castrolibero (alle 10 e 30) si terrà un seminario di formazione sulla Carta di Roma, il protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato nel giugno del 2008 dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati circa l’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista – con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche – ed ai principi contenuti nelle norme nazionali e internazionali sul tema.

Al seminario, che è anche pensato come momento di confronto sui nodi problematici dell’informazione sull’immigrazione nei media calabresi, parteciperanno la portavoce dell’ Unhcr,  Laura Boldrini, il presidente della Fnsi, Roberto Natale, e la neopresidente dell’Associazione Carta di Roma – nata nel dicembre 2011 proprio per dare attuazione al citato protocollo per un’informazione corretta sui temi dell’immigrazione – la giornalista del Tg5 Valentina Loiero. 

L’iniziativa non pretende di generare cambiamenti radicali come quello nella sceneggiatura del “Volo” di Wenders, ma che almeno – per rimanere nella metafora cinematografica – quando si racconta la complessa realtà della migrazione degli uomini si privilegi il campo corto, il primo piano; il fermo immagine. In modo da staccare volti e vicende dai contesti generali per raccontare le vite di persone, uomini, donne, bambini che hanno un nome, un viso. Una dignità, insomma; per non dire un’identità. A colui che informerà secondo questa regola (est)etica potrà accadere ciò che capitò al regista Düsseldorf sulla spiaggia di Scilla quando si accorse che quegli stranieri che da ore attendeva esausti di essere fugacemente ripresi in una scena di pochi secondi erano persone, molto speciali. Non erano la messa in scena, secondo copione, di profughi sbarcati da una carretta del mare; lo erano davvero, con i loro drammi reali, le loro reali storie uniche, e le loro reali speranza di un futuro migliore in un paese dove la parola “straniero” è cancellata dal dizionario.

 

 

 

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