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«IL Maggiore non ha chiamato». Furono loro, poi, a chiamarlo, con quel satellitare che non squillava mai. «Rimanete lì», questo l’ordine. Falco, ed il suo capitano, Folgore, e gli altri uomini del Ros, Ghiro, Colera, Sniper e Lupin, e le teste di cuoio, erano fermi, nascosti, a pochi metri dal boss dei boss. Da Peppe Morabito “u Tiradrittu”, l’inafferrabile primula della ’ndrangheta, da dodici anni latitante. Pacifico e ignaro, col genero Peppe Pansera se ne stava a Santa Venere, vicino Cardeto, nel covo che quella squadra di uomini scelti era riuscita ad individuare dopo una caccia lunga e ostinata, anche disperata. I blitz si fanno all’alba, e loro erano lì dalle cinque meno un quarto di quel 18 febbraio 2004. Il sole poi si fece alto, attesero più di cinque ore, quell’ordine che mai arrivò. Un’attesa ancor più estenuante, alla luce, col timore che il superboss potesse scappare dopo mesi massacranti a dargli la caccia tra le montagne che erano il suo territorio. Si fecero le dieci del mattino. E Falco disse a Folgore, il capitano: «Noi ce lo dobbiamo prendere. E del resto ce ne dobbiamo fottere… Sì, proprio così. Delle carriere ce ne dobbiamo fottere. Della mia e della tua». 

L’ordine di prendere il “Tiradrittu” dall’alto non arrivò. Fu Folgore, il più alto in grado, ad assumersi quella responsabilità, perché «lui è un vero carabiniere, orgoglioso e forte come un carabiniere». Diede lui l’ordine e il boss dei boss fuggiasco da dodici anni andarono a prenderselo.  

E’ il racconto di chi quei momenti li ha vissuti. Il racconto del maresciallo Nino Maressa, nome in codice Falco, nel libro “La mala vita” scritto a quattro mani con il Premio Campiello Giovani Flavia Piccinni per Sperling & Kupfer. Un libro che svela particolari inediti e, per alcuni aspetti, anche sconvolgenti su ciò che accadde durante e dopo la cattura del “Tiradrittu”.

Il boss fu arrestato perché gli uomini che gli davano la caccia vollero arrestarlo. Certi settori dello Stato volevano davvero che fosse catturato? Il dubbio, nella lettura di questo libro, firmato da chi strinse le manette ai polsi di don Peppe, rimane: «Forse la lunga latitanza di don Peppe, che l’ha reso imprendibile fino a oggi, non era merito soltanto di chi lo proteggeva più direttamente, ma anche di qualcuno di più importante e potente della sua famiglia e della sua ’ndrina». Il maresciallo Maressa e Flavia Piccinni rammentano, nel libro, le parole della figlia di Morabito, intercettata dopo l’arresto: «Quello che dice è una vera bomba. Parla di qualcosa, di una carta bianca, un documento. Fa riferimento – si legge tra le pagine di “Mala vita” – a qualcuno dei servizi e a cento milioni, forse allude a uno scambio di denaro. Mente? Esagera? Sta lanciando dei messaggi a qualcuno? Forse. Ma quelle parole mi rimbombano in testa. Non posso credere che sia vero e forse non ci credo ancora. So che è la rabbia a far parlare la donna, ma quello che sto ascoltando è grave. A volte, però, basta tornare indietro nel tempo a una storia vecchia di vent’anni – quella di un figlio di un boss, ucciso accidentalmente in uno scontro a fuoco fra carabinieri e polizia, senza che poi fosse seguito un processo, un’indagine, né una rappresaglia firmata dalla ’ndrina – per capire che non tutto è semplice e trasparente come sembra.  E allora diventa difficile non pensare che siamo stati noi, con la nostra operazione, ad avere rotto gli equilibri e una pace. Diventa difficile non pensare che ci saranno delle conseguenze. Noi della squadra  non sapevamo ancora che, probabilmente, saremmo stati tutti destinati, in un modo più o meno diretto, a pagare per questo arresto. E in quel momento, forse, neppure ci avrebbe interessato».

Postilla: il giovane ucciso nel   conflitto a fuoco tra carabinieri e polizia si chiamava Domenico Morabito. Morì il 5 ottobre del 1996. Era il figlio di Peppe Morabito, “u Tiradrittu”. 

 

 

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