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IL maiale è stato per secoli la dispensa dei calabresi e non solo: la sua macellazione, rigorosamente fatta in casa sino ad una ventina di anni fa, era un rito antico al quale partecipava tutta la famiglia. Una festa, forse cruenta, che ha segnato e scandito la vita di un’intera regione. Quasi tutti avevano il porcile, il “zimmunu” (dal tedesco “zimmer”, stanza) ove ricoveravano ed allevavano il maiale con gli avanzi di cibo pasturati con la “caniglia”, la crusca. I “zimmuni”, vere e proprie porcilaie, erano concentrati per lo più in grotte scavate nel tufo e comunque fuori dal centro abitato: una volta al giorno, generalmente nel primo pomeriggio, era una processione interminabile di donne con in testa l’ondeggiante secchio della “vrurata” da svuotare nella “scifella” (una sorta di contenitore ad angolo fra due lati del “zimmunu” e rialzato per non far traboccare la brodaglia) ove si avventava, voracissimo, il porco, con gran soddisfazione del proprietario che lo vedeva ingrassare giorno dopo giorno e già pregustava salsicce, soppressate, prosciutti e tutto il ben di Dio che dall’animale si ricava. 

Quando il maiale superava il quintale, generalmente fra dicembre e febbraio, ci si preparava all’uccisione della bestia, anche perché il freddo dell’inverno era l’ideale per la conservazione della carne e la stagionatura dei salumi. Prima della data stabilita si cominciava ad “ammolare” i coltelli e a preparare la “mailla” (madia). La mattina dell’uccisione le donne si svegliavano che era ancora buio per preparare un enorme pentolone di acqua bollente che sarebbe servita successivamente per radere le setole del porco. Alle prime luci dell’alba, gli uomini prelevavano il maiale  preceduto da qualcuno con un secchio di ghiande rumoreggianti allo scopo di farsi seguire docilmente dal maiale, affamato ma riottoso (a bella posta non gli si dava da mangiare nelle ore precedenti l’uccisione per favorire lo svuotamento delle budella), il quale probabilmente intuiva la sorte che gli sarebbe toccata da lì a poco. 
L’uomo che avrebbe poi scannato la bestia preparava un nodo scorsoio con una corda, quindi si avvicinava all’animale e, con molta abilità, ne agganciava l’incisivo facendo due o tre giri attorno al muso per impedirgli di mordere. Altri afferravano il suino, tenendolo saldamente e scaraventandolo su una grossa panca. I più pavidi, invece, avevano il compito di stringere la coda: operazione inutile, tanto che ancora oggi, se si affida a qualcuno una mansione simbolica, senza alcuna responsabilità, si dice che “tiene la coda al porcello”. Il carnefice, munito di un coltellaccio lungo ed affilato (“u scannaturu”), tranciava di netto la giugulare del porco che si dimenava lanciando grugniti altissimi e spaventosi rimbombanti in tutto il paese. Fra i bambini eccitati c’era anche chi, più sensibile, si nascondeva, tappandosi le orecchie per non udire quegli strepiti disperati. Il sangue, che zampillava copioso dalla gola del porco, colando in una pentola era rigirato continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Esso, infatti, sarebbe stato poi l’ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema da spalmare sul pane, di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi. Dopo una lenta agonia il povero animale esalava l’ultimo respiro ed allora ci si preparava a raschiare la cotenna. 
Quando anche questa operazione era terminata, il “macellaio” incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoriuscire i tendini nei quali veniva infilato un attrezzo di legno a forma di triangolo senza base sicché, con l’aiuto di una carrucola, o più semplicemente a forza di braccia, l’animale, per essere squartato, veniva issato ed appeso ad un gancio che spuntava dal soffitto. A questo punto aveva inizio un’operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la perizia del “macellaio”. Per prima cosa estraeva l’apparato genitale dell’animale, che veniva usato poi dai falegnami per ungere le seghe, quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente, ad aprire il ventre dal quale cavava la vescica, subito affidata ad uno degli aiutanti perché, dopo averla svuotata, la lavasse accuratamente e, con l’aiuto di una cannuccia, la  gonfiasse. La vescica, nei giorni successivi, era riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Dunque, con molta attenzione, onde evitare di forare le budella, toglieva tutto l’apparato digerente, il colon e l’ intestino tenue. 
Tutto finiva in una bacinella e per le donne cominciava un lavoro lungo, fastidioso e delicato per lavare decine e decine di metri di intestini che, rivoltati, erano collocati in una grande pentola piena di acqua fredda assieme a limoni ed arance. Era la volta di polmoni, fegato e cuore e la carcassa, svuotata completamente delle interiora e  tagliata in due parti, le “menzine”, nel senso della lunghezza, veniva sganciata. Ora, finalmente, gli uomini potevano riposare, mentre per le donne aveva inizio un vero e proprio tour de force.  Per prima cosa affettavano un pezzo di fegato e lo avvolgevano nel peritoneo (“picchjiu”)  che, con qualche pezzo di carne tagliato dal collo della bestia, finiva sulla griglia per servire da colazione agli uomini che avevano lavorato così duramente e che ora non disdegnavano un po’ di arrosto ed un paio di bicchieri di vino. Poi si preparava un sontuoso pasto a base di maccheroni al sugo, ovviamente di maiale.  Dopo la frolla della carne, il giorno successivo si provvedeva al sezionamento, operazione affatto semplice che richiedeva perizia ed esperienza, ed allo sminuzzamento delle parti. Nella prima metà del secolo, almeno dalle nostre parti, non erano ancora diffuse le macchinette trita carne per cui la polpa di salsicce e soppressate era tagliuzzata a mano fino a ridurla a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni. Una volta preparata la pasta col sale e le spezie, iniziava la lunga e fastidiosa operazione dell’insaccaggio.
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