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PETILIA POLICASTRO – “Dieci novelle del Decamerone” di Giovanni Boccaccio, traduzione in vernacolo policastrese di Maria Pascuzzi: questo il titolo del libro, presentato nella biblioteca della cittadina petilina. Italo Calvino scriveva che «la cultura dialettale ha la sua piena forza fino a che si definisce come cultura municipale», legata, cioè, all’identità di un paese. Quando, invece, cerca di allargare i suoi confini, perde intensità. E l’opera di Maria Pascuzzi (professoressa in pensione, autrice di otto pubblicazioni ed apprezzata pittrice) ha in questo il suo pregio, aver preservato dal mutamento, dall’evoluzione sociale e salvato dall’oblio, quelle parole che non si usano più, di cui si perdono i significati; e che, spesso, non sono sostituibili. Alcune parole dialettali non hanno corrispondenti in italiano e quei significati cessano di esistere quando il dialetto decade, quando, cioè, qualcuno finisce di dirle, quando coloro che parlano i dialetti smettono di farlo, qualunque ne sia la causa. Anche per questo, nella traduzione “tradiscono” meno l’opera originale, rispetto a quanto accade con l’italiano. Un altro aspetto da sottolineare è che la traduzione in questione è pressoché unica nel suo genere, non solo a Petilia ma anche a livello regionale; nessuno finora si è cimentato in un’impresa simile. 

Si registrano delle traduzioni di singole novelle del Boccaccio (ne riferiamo a parte, nel box qui a fianco, ndr) ma non in un numero così consistente. La scelta di Boccaccio, poi, è illuminante, considerato che nella tradizione popolare, i petilini sono famosi anche per la loro goliardia e l’autore del Decamerone a Petilia Policastro, visto ciò che ha scritto, si sarebbe trovato perfettamente a suo agio. Le storie di Ser Cippariaddru, Biondiaddru degli Alberghi, Michele Scalza, Andreucciu e Perugia, U furnaru Cisti, Bergaminu, Federicu, majestru Simune, Chichibiu, frate Cipuddra, pur essendo ambientate diversi secoli fa e in un altro contesto, sono storie simili a quelle che si raccontano nelle tavolate all’insegna della convivialità. Cambiano i nomi ma l’atmosfera è molto simile, specie nella versione del Decameron tradotto dalla Pascuzzi. E questo è un altro pregio dell’opera. Si tratta di un’opera che la stessa autrice definisce «narrativa per la scuola media», proprio perché il suo intento è quello della trasmissione del dialetto alle giovani generazioni. Come scrive l’autrice in un altro suo libro, «il dialogo fra le vecchie e nuove generazioni è stato bandito, pertanto la nostra lingua madre tende a scomparire». Un altro estimatore del dialetto era Pier Paolo Pasolini, che dell’opera del Boccaccio ha fatto anche un’apprezzata trasposizione cinematografica. Colui che è da considerarsi uno dei maggiori intellettuali del Novecento, scriveva che «il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà». Apprezzò, molto, una versione napoletana del Decameròn e, probabilmente, avrebbe apprezzato anche quest’opera. Pasolini vedeva nel dialetto l’ultima sopravvivenza di ciò che ancora è puro e incontaminato, e per tale motivo doveva essere «protetto»; arrivò, perfino, ad insegnarlo. Così come vorrebbe fare Maria Pascuzzi con queste 10 “nuveddre” e le sue altre opere, dopo oltre 40 anni passati a insegnare a leggere, scrivere e far di conto a molte generazioni di petilini.
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