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Salvatore Vitale

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Salvatore Vitale è il ricercatore che vive a Boston e che ha creato l’algoritmo che permette di rivoluzionare questo aspetto della scienza

QUANDO Ligo ha iniziato a captare le prime onde gravitazionali, in America era notte. Salvatore Vitale, calabrese di origine e oggi ricercatore al Mit di Boston, si trovava in Italia per una visita ai genitori dopo una conferenza in Ungheria. Ha capito subito che il mondo stava cambiando. E’ suo l’algoritmo che consente di “vedere” le onde gravitazionali distinguendo il segnale, debole, simile a quello di una voce dentro un enorme fruscio in radio quando si accavallano due frequenze.

«Non ci sono molte persone nel mondo che sanno come utilizzare l’algoritmo per estrarre i parametri, ed io ero il primo ad essere sveglio e reattivo. E’ stato emozionante -racconta- perché man mano che il codice progrediva, occorrono alcune ore, io vedevo i parametri convergere ai valori che poi avremmo misurato e pubblicato. Dopo poche ore era chiaro che si trattava di qualcosa di vero, non semplicemente dovuto al rumore nello strumento. Ho finito per passare tutto il tempo a casa chiuso in camera, invece di stare con i miei genitori, e non potevo neppure dirgli perché!». La segretezza su questa scoperta epocale è stata dura da mantenere. Oggi Vitale può raccontare l’esaltazione di quei momenti e il prezioso lavoro…

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«Come forse nella vita di molte persone, alcuni incontri e coincidenze fortuite hanno giocato un ruolo importante, oltre a tanto tanto lavoro. Al “da Vinci” partecipai alle olimpiadi di matematica e fisica. Quelle di matematica ebbero un ruolo importante, e non volevo neanche farle (concentrandomi invece su quelle di fisica, che era già allora la mia passione). Partecipai alle selezioni del liceo solo per fare contenta la mia ragazza di allora, ed andò a finire che arrivai alle selezioni nazionali. Diversi mesi dopo ricevetti una lettera dall’Università di Bologna che mi invitava a considerare di fare gli studi lì, sottolineando l’esistenza di borse di studio (indispensabili nel mio caso, visto che la mia famiglia non avrebbe potuto mantenermi). Mi iscrissi a Bologna, in Fisica alla triennale e fisica teorica alla specialistica. Lì vinsi una borsa per scrivere la tesi specialistica all’estero e andai a Parigi, dove rimasi anche per il dottorato di ricerca. Era il 2006, non sono più tornato».

Come si è trovato al Mit di Boston?

«In quel periodo lavoravo sulle equazioni di Einstein, e come calcolarne soluzioni approssimate, in particolare per le onde gravitazionali. Durante un meeting a Parigi vidi un giovane professore che aveva problemi col wifi del suo computer, e mi offrii di aiutarlo. Mettendoci a chiacchierare, scoprii che era un giovane professore italiano che lavorava in Arizona. Mi propose di spendere due mesi lì per lavorare insieme e accettai contento anche perché non ero mai stato in America. Questo è l’episodio che mi ha portato in contatto con gli esperimenti per rilevare le onde gravitazionali, ed in particolare Ligo, di cui quel professore è membro. Dopo avere ottenuto il phD mi sono spostato ad Amsterdam per un post-doc, sono diventato membro di Virgo, e ho lavorato su analisi dati per Ligo-Virgo (i dati si analizzano congiuntamente). Il Mit mi assunse alla fine del mio secondo anno. Avevo risposto ad un annuncio del Ligo Laboratory al Mit, mandando un curriculum e un piccolo progetto di ricerca di qualche pagina. Mi fa piacere sottolineare che sono stato assunto interamente in base al curriculum: fino al giorno in cui sono andato a Boston per il mio colloquio, che nel nostro settore vuol dire dare un seminario di un’ora sul proprio lavoro, non conoscevo nessuno che lavorasse lì né loro conoscevano me, solo il mio lavoro e potenziale. Sono stato post-doc per tre anni qui al Mit, e da settembre scorso sono stato promosso a ricercatore (Research scientist)».

Di cosa si occupa attualmente?

«Il mio lavoro è analizzare i dati di Ligo (e Virgo, quando sarà attivo nella seconda parte del 2016) con due obiettivi: il primo è cercare onde gravitazionali. Ho creato, lavorandoci da quando sono arrivato al Mit, un codice che cerca onde gravitazionali dentro i dati, in particolare questo codice cerca segnali per cui non si ha un buon modello astrofisico (non si sa cosa si cerca). Si vuole fare in fretta perché molti delle sorgenti gravitazionali hanno controparti elettromagnetiche che non sono eterne. Il secondo obiettivo, altrettanto se non più importante, è estrarre l’astrofisica dai segnali che troviamo. Una volta che abbiamo un segnale bisogna estrarre più informazione possibile sulla sorgente che lo ha emesso».

Il suo contributo e quello degli scienziati italiani alla scoperta delle onde gravitazionali.

«Il mio personale è stato da un lato creare uno dei due codici che ha fatto la scoperta. Poi sono stato anche la prima persona a calcolare esattamente le masse e gli altri parametri. Per una combinazione di caso e competenze. Ci sono tantissimi colleghi italiani in Ligo e Virgo, e molti occupano ruoli di primo piano, sia scientificamente che a livello organizzativo. E’ stato davvero uno sforzo globale. Sapevamo di fare la storia, per cui tutte le analisi e tutti gli articoli dovevano essere perfetti».

Quale scenario apre questa scoperta?

“E’ una rivoluzione. Finora la nostra conoscenza del cosmo era mediata fondamentalmente dalla radiazione elettromagnetica, in tutte le sue forme: luce, onde radio, gamma, raggi X, eccetera. Purtroppo però, questo tipo di segnale non sempre viaggia indisturbato attraverso l’universo. Può venire oscurato o deviato, e non raggiungerci mai. Invece le onde gravitazionali passano indisturbate attraverso tutto, per cui arriveranno sulla terra dal lato opposto dell’universo, se avremo le orecchie per ascoltarle. Dico orecchie non a caso: la frequenza delle onde gravitazionali cercate da Ligo è quella dell’audio: decine fino a centinaia di Hertz. Adesso abbiamo i mezzi per sentirle, è importante perché usare solo le radiazioni elettromagnetiche non è sufficiente. Anche perché alcuni degli incredibili sistemi esistenti nell’universo emettono poca luce, o nessuna, come i buchi neri. Credo sia chiaro che siamo quindi alle soglie di un’epoca in cui potremo conoscere intimamente dei sistemi totalmente esotici e lontani dall’universo che immaginiamo».

Cosa si aspetta di trovare nello spazio? Secondo lei gli extraterrestri esistono?

«Non mi aspetto di trovare niente, mi aspetto di capire. C’è un’intrinseca bellezza nel mistero della natura, e un qualcosa di eroico nel tentativo di decifrarlo. Ci sono questi momenti, soprattutto se si fa ricerca, abbastanza rari ed unici, in cui per qualche minuto si è l’unica persona al mondo a sapere qualcosa, ad avere capito perché un particolare fenomeno succede in un modo, e non in un altro. Statisticamente parlando non avrei problemi ad accettare l’esistenza di altre civiltà. Anzi, diverse missioni scientifiche hanno la ricerca di pianeti abitabili (e potenzialmente abitati) come tema centrale (Exoplanets)».

Quali sono le differenze della ricerca tra l’Italia e gli Usa? Di recente c’è stata la polemica di una ricercatrice italiana che oggi si trova in Olanda con il ministro Giannini.

«Ho lasciato l’Italia 10 anni fa, e non ho mai fatto ricerca in Italia. Non mi sono mai pentito di essere partito, anzi il contrario. Nel nostro paese i soldi per la ricerca sono pochi, e le condizioni per emergere sono limitate o inesistenti. Spesso si ha quasi l’impressione che lavorare sia un favore che viene concesso. Ho sempre visto con sospetto (e mai provato ad ottenere) i vari tentativi per portare a casa i “cervelli in fuga” con qualche migliaio di euro per 2-3 anni. Non basta, quello che fa la differenza non è solo avere uno stipendio decente, sono tutte le condizioni al contorno, che in Italia mancano. Ho diversi amici bravi, bravissimi, che hanno dovuto lasciare l’Italia se volevano lavorare. Marco, il mio collega ed amico che è sui giornali di tutto il mondo per avere ricevuto la prima “allerta” del segnale (Marc Drago, ndr) è ad Hannover. Fino a 1-2 anni fa era a Padova/Trento. E’ dovuto andare via per mancanza di fondi, non per scelta. In questo momento sono in corsa per diventare professore in alcune università americane. Ho 34 anni da compiere, ma qui è normale. In italia l’ultima volta che ho controllato c’erano 6 professori sotto i 40 anni in tutto il paese».

Come e dove immagina il suo futuro?

«Sto bene qui, non ho la minima intenzione di tornare in Italia nelle condizioni attuali. Ciò non vuol dire che a volte non abbia nostalgia, ma la ho delle persone ed amici più che del paese. Lo stesso è vero per Reggio, in cui purtroppo non torno da diversi anni, visto che i miei genitori si sono trasferiti alcuni anni fa al nord, per dare un futuro potenzialmente migliore ai miei fratelli minori. Ho ancora parenti, amici e compagni di scuola con cui sono in contatto. Una di esse in particolare è una bravissima ricercatrice in agraria. In qualsiasi altra università del mondo avrebbe un posto fisso o quasi, invece si deve barcamenare per andare avanti e seguire la sua passione».

Alla fine ai suoi familiari ha raccontato della scoperta delle onde gravitazionali.

«Glielo ho detto la prima volta alla cena di Natale, dopo tre mesi di segreti. Hanno capito l’importanza della scoperta, anche se probabilmente non si aspettavano che avrebbe avuto questa portata sui media. Hanno fatto tanti sacrifici per me ed i miei fratelli e sorella. Sono contento di poterli ripagare con questa soddisfazione».

Lei ha scritto agli studenti del “da Vinci” che il linguaggio del futuro è quello della fisica e dell’informatica, non l’inglese o il cinese.

«Era in parte una provocazione. Non mi fraintenda: le lingue sono importanti. E’ meraviglioso potere comunicare con la gente, non essere schiavi della propria località. Uno dei momenti più felici della mia vita è quando ho iniziato a potere comunicare con amici che parlavano solo inglese (che io non avevo studiato e che ho imparato da autodidatta a 25 anni). Invito tutti gli studenti a viaggiare il più possibile, ad ogni occasione. E’ solo dall’esterno, da lontano, che si guadagna una prospettiva sul proprio paese.
Il “da Vinci” è un liceo scientifico, e l’informatica dovrebbe avere un ruolo di primo piano. Sapere scrivere un programma è centrale per il successo in qualsiasi disciplina scientifica. Nel caso che conosco meglio, quello di Ligo, ha avuto un ruolo fondamentale. Non abbiamo acceso lo strumento, guardato un monitor e visto il segnale. Abbiamo girato codici scritti in C e python, di centinaia di migliaia di linee, per fare in qualche ora quello che noi avremmo potuto, forse, fare in secoli».

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