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Carlo Torti

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CATANZARO – I contagi sono finalmente in calo. Le temute riaperture del mese di maggio non hanno portato a quell’impennata che molti temevano. In Calabria i casi di positività sono quasi azzerati, ma siamo davvero fuori dal tunnel? Abbiamo rivolto questa domanda al prof Carlo Torti, infettivologo e docente dell’Università Magna Graecia di Catanzaro.

«Siamo nella fase in cui vediamo gli effetti positivi del lockdown, delle misure di distanziamento sociale, del miglioramento delle cure e, probabilmente, dell’aumento della temperatura atmosferica. Per ora, soprattutto in Calabria dove si registrano pochissime o nessuna nuova diagnosi da giorni, possiamo dire che la fase di “allarme rosso” è passata. Però bisogna considerare che non è corretto parlare di “zero contagi”, piuttosto bisogna parlare di “zero diagnosi”. In effetti, una persona può essere contagiata e trasmettere l’infezione ma se non viene sottoposta ai test diagnostici questa persona non viene considerata nel computo dei contagiati. Bisogna quindi sempre puntare a scovare i casi non diagnosticati tramite interventi di screening e diagnosi precoce. Inoltre dobbiamo avere aspettative realistiche e strutturare i nostri interventi in base a una mappatura dell’infezione tramite i test di ricerca degli anticorpi che solo ora cominciamo a fare. In attesa di questi nuovi dati e di osservazioni più prolungate nel tempo è un po’ presto per dire che il coronavirus è un problema archiviato, anche in Calabria. Questo genere di infezioni a sviluppo epidemico, finché non eliminate o eradicate, possono essere rapidamente mutevoli nel tempo e approfittare di nostri cali di attenzione».

Professore, sin dall’inizio della pandemia qualcuno aveva suggerito che questo virus si sarebbe potuto comportare come un’influenza stagionale, ovvero che sarebbe scomparso con l’estate (d’altro canto con la SARS accadde proprio così). Abbiamo dunque ragione di essere ottimisti?
«Abbiamo imparato come questo virus tenda ad instaurare un connubio col l’organismo ospite, nel nostro caso l’uomo. Così facendo, può sopravvivere nella popolazione in quanto molti dei soggetti infetti non muoiono e, vivendo, lo trasmettono ad altri. Per quanto riguarda l’effetto delle elevate temperature del clima atmosferico sulla diffusione della malattia, come per tutti i virus respiratori, l’infezione è legata anche alla stagionalità. Con l’arrivo dell’estate questi virus si trasmettono molto meno frequentemente e determinano malattie meno severe, per poi ricomparire in autunno. Ciò può essere spiegato dal fatto che con l’arrivo della bella stagione le persone tendono a stare in luoghi meno chiusi che sono luoghi ideali per la diffusione virale e, inoltre, c’è la chiusura di centri di aggregazione importanti come le scuole, già chiuse peraltro per via del lockdown. L’aumento della temperatura sembrerebbe ostacolare la trasmissione per via respiratoria del virus anche perché le difese dell’organismo sono potenziate nei periodi dell’anno più caldi. Attenzione, però, perché d’estate il virus potrebbe trasformarsi in un nemico invisibile, presente e in grado di provocare nuove epidemie nel momento in cui le condizioni ritornassero favorevoli. In Calabria, dove la popolazione è stata finora risparmiata dalla epidemia, moltissime persone non hanno gli anticorpi protettivi che si riscontrano nei pazienti guariti e quindi il terreno per il virus è, almeno teoricamente, assai più favorevole a una sua diffusione, rispetto a quanto possa avvenire in zone in cui molti soggetti guariti hanno acquisito gli anticorpi protettivi. Credo quindi che la completa scomparsa del nuovo Coronavirus sia al momento una pura illusione: dobbiamo imparare a convivere con lui e tenerlo a bada, senza allarmismi (soprattutto in questo periodo favorevole) ma con ponderata attenzione».

La storica Naomi Rogers, intevistata dal New York Times, ha sostenuto che c’è una fine “biologica” – definiamola così – di una pandemia (ovvero quando un virus scompare) e una fine psicologica, quando cioè le persone hanno deciso (talvolta inconsciamente) che la malattia è finita e cominciano a comportarsi di conseguenza. In Italia e, specie nelle regioni in cui davvero non ci sono più contagi, credo sia lapalissiano che la fine psicologica della pandemia sia già avvenuta. Quanto è giustificato l’atteggiamento più “rilassato” cui oramai assistiamo praticamente dappertutto?
«Come ho detto, purtroppo, la “fine biologica” della pandemia non è ancora avvenuta. Ricordiamoci che in Brasile, nelle ultime 24 ore, sono avvenuti altri 1086 decessi e gli Stati Uniti sono ancora fortemente colpiti con oltre 100.000 vittime complessive. In Italia ci sono ancora più di 50.000 soggetti attualmente positivi. Ricordiamo che in un mondo globalizzato come il nostro, non siamo totalmente fuori pericolo finchè un determinata malattia infettiva non è stata eradicata. A proposito della “fine psicologica” della pandemia, mentre è vero che è necessario attuare una ripresa delle attività, questa deve avvenire in modo intelligente secondo il principio di precauzione. Dobbiamo evitare un eventuale “effetto rebound” con atteggiamenti di libertà assoluta e non dimenticare la diagnosi precoce dei pazienti con sintomi, la quarantena ove necessario, l’uso delle mascherine, le manovre di distanziamento sociale e l’igiene delle mani. Ciò che si osserva spesso oggi, purtroppo, sono invece atteggiamenti di esagerata reazione psicologica a un prolungato periodo di “astinenza” sociale. Cioè siamo passati da un estremo all’altro e questo non va bene».

Perché in molti continuano a ripetere come un mantra che quest’autunno ci sarà una ricaduta. È davvero una fatalità inevitabile?
«Ad oggi non possiamo affermarlo con certezza, ma dobbiamo essere pronti ad una eventuale ripresa della diffusione virale in autunno. Dobbiamo farci trovare pronti, non possiamo permettere che si ripeta quello che è avvenuto tra Febbraio e Marzo in Italia. Per tale motivo, in questo periodo di tregua (ma la guerra non è finita) bisogna potenziare le strutture ospedaliere in modo che siano in grado di affrontare una eventuale ripresa dell’epidemia. Dobbiamo anche prepararci ad un cambio di mentalità e portarci rapidamente verso un miglioramento della assistenza extra-ospedaliera, rafforzando i servizi extra-ospedalieri sul territorio, creando reti collaborative più valide tra medici e personale sanitario che possano più efficacemente prestare assistenza al domicilio del malato o in strutture apposite, così da garantire il massimo isolamento, senza affollare i pronto soccorso e gli ospedali. Ovviamente, nel caso in cui il ricovero dovesse rendersi necessario, bisogna potenziare fin d’ora i reparti di malattie infettive e le rianimazioni. Qualora l’epidemia COVID rimanesse per fortuna sotto controllo questi investimenti di risorse e di personale non saranno sprecati, poiché le malattie infettive in generale sono comunque assai diffuse e i pazienti che ne soffrono potrebbero beneficiare di livelli assistenziali ulteriormente migliorati»

Un’ultima domanda: potrebbe accadere, come qualcuno sostiene, che il virus perda potenza e diventi una simil-influenza?
«Biologicamente è possibile che i virus realizzino man mano un adattamento all’ospite che li renda meno aggressivi, dopo una fase di maggiore virulenza. Tuttavia, per il nuovo coronavirus, questo non è stato ancora dimostrato ma solo suggerito da esperienze che meritano di venire meglio valutate e confermate. Per esempio, recentemente, abbiamo appreso anche tramite giornali di scoperte in provetta che suggeriscono come alcuni coronavirus isolati più recentemente determinino un danno cellulare minore. Tali importanti scoperte, il cui artefice è il professore Arnaldo Caruso, illustre calabrese e amico che lavora a Brescia, meritano di venire pubblicate su riviste scientifiche e ulteriormente confermate. E’ vero comunque che i pazienti muoiono meno, che le rianimazioni si sono svuotate più di quanto potevamo aspettarci dalla riduzione delle nuove diagnosi e questo può far ritenere che l’infezione sia meno aggressiva. D’altra parte, questo potrebbe venire spiegato anche dal fatto che i pazienti più fragili sono già morti, i nuovi infetti possono essere più resistenti agli effetti del virus e noi abbiamo imparato a curare meglio i pazienti. Infine, le misure di contenimento ed il clima possono avere ridotto la quantità di virus infettante, per cui un soggetto che si infetta oggi con una minore quantità di virus potrebbe più facilmente controllare la malattia, avere quindi meno sintomi e più frequentemente guarire dalla stessa. Buone notizie, insomma, ma le ragioni rimangono da valutare. Nel frattempo, deve continuare incessantemente la buona ricerca e il livello di attenzione della popolazione e delle istituzioni deve rimanere adeguato e proporzionale a gravi conseguenze nella sfortunata ipotesi di un nuovo aumento dei casi in autunno, eventualità che ritengo almeno possibile».

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