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Kenya, il “torneo” di tennis dei bambini sulla terra rossa

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WATAMU (KENYA) – Se gli spieghi che la pallina può rimbalzare soltanto una volta restano un pochino male. Se provi a dimostrare come si fa, il più delle volte si pianta giù. La terra rossa non è quella felpata dei circoli occidentali al riparo dai guai del mondo, bensì finissima sabbia quasi amaranto dove alloggiano i famigerati funza, micidiale specie di pulci che hanno divorato i piedi di generazioni di bambini scalzi annidandosi nelle ferite o sotto le unghie.

Nel caos della giornata in cui i ragazzini di due villaggi poverissimi di Watamu, 26 chilometri a sud di Malindi, sulla costa orientale africana, in Kenya, hanno scoperto per la prima volta il tennis esibendo la stessa espressione che avremmo tutti noi all’atterraggio di una navicella spaziale in pieno centro città, è assai difficile mantenere il “campo centrale” in perfetto stato pur avendolo rastrellato alla meno peggio con un raschiatoio di fortuna costruito con un manico d’albero e una tavoletta di legno. Ma si gioca, ed è come un sogno inaspettato.

Gemellino povero dell’Australian Open, questo piccolo grande Slam è in contemporanea però tra le foreste di una cittadina adagiata sull’Oceano Indiano a due ore di macchina dall’Equatore, verso sud, spiagge bianche che accecano, ville inglesi che paiono avere gli stessi pregi dei rispettivi padroni, scostanti e presuntuose, ville italiane semichiuse causa Covid con piscina e quei solitari fundi, come si dice in swahili, ovvero gli operai intenti a sistemare giardini, curare la manutenzione, togliere via dai ninnoli le polveri e con esse vaghi pensieri in merito a vite da eterni ultimi.

Ville come quella di Marco Tardelli, per esempio, a ridosso di Watamu Beach, con vista sugli isolotti scolpiti dal vento che anticipano la barriera corallina. Uno spazio incalcolabile, tra vecchissime e affusolate barche da mille e una notte, Siraja Munira, Al-Maidah, Thafaf, con i loro legni scorticati e le vernici erose dal tempo, le vele latine, e quel profumo di storia, di battaglie e fatiche millenarie che i pescatori anziani usano ancora sfidando le onde per guadagnarsi da vivere.

Quando la bassa marea trascina via l’acqua la secca può trasformarsi in un campo di calcio, perfetto per i ragazzini che si organizzano in pochi attimi piazzando finanche reti e portieri tra i pali; oppure fungere da “passeggiata sulle acque” ammirando una fauna marina dove a farla da padroni sono granchi, stelle marine rosse, ricci e pesci palla, fino a raggiungere la leggendaria Isola dell’Amore accompagnati da beach boys che parlano l’italiano e negli anni hanno acquisito addirittura slang romani, milanesi, napoletani.

Lontano, nel “bush”, il bosco delle mangrovie e delle palme, qualcuno sta giocando a tennis. Un miracolo. Si rincorrono gli echi di tocchi marziani tra corde e palline. Tendono le orecchie, accorrendo, anche uccelli di ogni specie qui patrimonio dell’Unesco, e lucertole agama agama piene di colori e scatti della testa come fossero in tribuna. Si gioca a tennis nei villaggi di Kwahadija, appena all’interno della strada che traccia il quartiere di Timboni, si gioca a tennis a Mida, a ridosso del creek marino e dell’immensa Arabuko Forest, la più grande selva fluviale dell’Africa orientale con i suoi 400 chilometri di estensione.

Giocano per la prima volta bambini tra gli ultimi del pianeta in quanto a diritti. Possono averne almeno con una racchetta, perciò, e in mezzo a tanti rovesci, a quel Grande Rovescio delle loro esistenze condite per lo più dal fango delle stagioni delle piogge, e da polvere e mosquitos quando si sfiorano i quaranta gradi come in questo periodo. Ciascuno senza riparo alcuno dalle violenze quotidiane e da quelle dell’indifferenza del pianeta, ciascuno di essi senza prospettiva e troppo spesso nemmeno speranza, forse nemmeno di quell’uno su mille del Vangelo.

Ma si gioca, e il diritto alla gioia non glielo toglie nessuno oggi. Nemmeno se si aprisse una voragine e saltasse fuori Satana travestito da Federer, perché questi piccoli campioni, sorpresi e festosi, gli riserverebbero un 6-0/6-0 senza partita. Da far spavento allo stesso Novak Djocovic dell’ultima finale con King Roger a Wimbledon. Occhi bellissimi, attenti, concentrati poi i maschietti come tanti baby Rafa Nadal, e le ragazzine come piccole Simona Halep. E’ un torneo stupefacente, un rave estemporaneo di felicità. Mai visto, mai sentito. Lo stadio del tennis sta tra le capanne e i fuochi in mezzo alle pietre in attesa che polenta e fagioli, se va bene, se hai trovato qualche scellino per comprarli, siano cotti. Ma fosse pure in mezzo alla fame, adesso, farebbe lo stesso.

Come novelli Amstrong, a toccare per primi il suolo lunare sono i bambini della “Mama Rossana Academy School”, un prodigio educativo messo su da Alessandra Baiocchi, romana, a Kwahadija. Magari non cambierà destini che appaiono segnati, tuttavia fornirà dell’equipaggiamento adatto ad avere in tasca una possibilità. Un cuscinetto, questa scuola, da caschi blu, e nel groviglio della povertà più assoluta.

È una guerra quotidiana qui, e si combatte a colpi di lingua inglese e swahili, matematica, e da poco anche geografia. Dove sta il mondo, bambini? E’ proprio lontano, sulle cartine appese a questi muri di fango e legno. E’ lontanissimo, pendente nello spazio di quell’indecente cinismo che va da Oriente a Occidente e viceversa. E in quel mondo sono in pochi a sapere che cosa vi sia qui, e ancor meno sono coloro che hanno la necessità di saperlo.

La vida es una tómbola, de noche y de día, cantava Manu Chao (era per Diego Armando Maradona, quel genio nato a Villa Fiorita, nelle favelas più povere di Buenos Aires), la vita è una lotteria, di giorno e di notte. Una lotteria. Non hanno scelto di nascere e vivere in questa parte dell’Africa queste bambine e questi bambini, di giocare tra la polvere, scalzi, sporchi, dividendo l’inchiostro delle etichette di plastica con i polli, di sfidare la sorte ogni giorno nel match con i funza. Di vedersi tagliate a crudo le tonsille, per esempio. E’ successo a una bambina di appena nove mesi, pochi giorni fa. “Aveva sempre la tosse”, si è giustificata la madre, sbrigativa, inconsapevole del danno e dei rischi in mezzo a sporcizie di ogni sorta.

Quando a fare l’intervento non sono direttamente le mamme (i padri spessissimo non esistono, vagano come fantasmi altrove a ubriacarsi, oppure sono fuggiti con altre donne) sarebbero addirittura persone autorizzate da un pezzo di carta governativo: una lametta da rasoio, legata alla cima di un qualsiasi legnetto preso in terra, ed è fatta. Una settimana fa nemmeno quel bimbo piccolissimo morto soffocato mentre la madre lo allattava e nel frattempo si era addormenta, fatta dell’alcool del mnazi, il vino di cocco che si produce in casa salendo sulle lunghissime palme e lasciando fermentare il succo del frutto in bottigliette di plastica rovesciate, avrebbe mai potuto conoscere la sua tómbola. E neanche quell’altra anima innocente che avevamo visto più volte si sarebbe aspettata di essere presa a morsi da una madre impazzita, la quale ha poi sostenuto che il sangue del figlio le avrebbe fatto bene guarendola dal ogni male. Oggi però è arrivato un marziano che dispensa gioia al posto delle caramelle che qualche facilone d’Occidente passando di qua ha consegnato per lavarsi la coscienza, per poter dire al suo ritorno a casa d’aver visto e vissuto – ma è una fake – la vera Africa. Quel dispensatore di conforto è il tennis.

Si gioca, si gioca dimenticando questi orrori. Dimenticando la fame e di aver bevuto, assetati, acqua piovana, di non dormire da secoli, di non sorridere da prima ancora. Le armi degli alieni sono palline, racchette, due reti e abbigliamento ad hoc. L’idea è stata di chi scrive, ma la Base Madre di un’altra galassia da cui sono stati inviati e per cui questo sogno è diventato realtà è il Comitato Calabro della Federazione Italiana Tennis. Quando riceve le prime fotografie, il presidente Joe Lappano riesce a stento a dire qualche parola. “E’ una cosa troppo grande, sono commosso, stupito…”.

Emozione che si diffonde nei vari circoli calabresi, tra i quali aveva fatto la spola l’energica consigliera del Comitato Maria Teresa Monteleone. Dividiamo gli attrezzi tra la Mama Rossana School, e il villaggio che sta a Mida. Evans Mkala, 42 anni, diventa matto. La sua famiglia ha utilizzato questo grande terreno di sua proprietà da generazioni per costruirvi un’altra scuola. E’ frequentata da bambini forse ancora più ultimi tra gli ultimi. “Lo abbiamo fatto per la comunità, onorando così la memoria di mio padre che voleva questo.

Era tutto fango, adesso ci sono mattoni”, spiega col suo sguardo pulito. Si è vestito da tennista, Evans. Maestro di tennis all’improvviso, scombussolato, felice. Ricorda, con quei fantastici capelli rasta, Dustin “Dreddy” Brown, famoso per il suo estro fuori da ogni riga. Ha organizzato per noi un comitato di accoglienza: i bambini del villaggio si esibiscono in acrobazie, che imparano da un istruttore il quale si dedica ad essi ogni giorno, gratis. Bravissimi, ci lasciano senza punti cardinali nel cuore e nella testa. E provano, provano diritti, rovesci, smash, servizi. Provano a vivere un pochino, fosse pure soltanto per un giorno. Giocano i loro teneri diritti e rovesci, cercando i nostri occhi sempre. Senza accorgersi che sono bagnati, nascosti dagli occhiali da sole.

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