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Rifugiati del Tigray

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Spesso abbiamo riaffermato da queste pagine un principio sacrosanto che andava ripetendo Gino Strada consumandosi fino all’ultimo nel cuore e nelle forze: se ci sono esseri umani che stanno soffrendo in qualche angolo del pianeta riguarda ciascuno di noi, ignorare perciò la sofferenza è un atto di violenza tra i più vigliacchi che possiamo compiere.

L’attenzione internazionale oggi è concentrata sull’Afghanistan, dove le potenze occidentali hanno interessi ben precisi (eroina, uguale soldi a palate per tutti), ma altrove sono in atto crisi infernali delle quali nessuno parla.

Nel Tigray per esempio – una delle 9 regioni dell’Etiopia situata a nord, al confine con l’Eritrea – la guerra uccide donne e bambini ogni giorno, orrore nell’orrore di un conflitto che l’Occidente non vuole vedere. E noi ne sappiamo davvero poco.

L’informazione italiana è responsabile di questa mancanza, ecco perché da questo osservatorio – che ritengo privilegiato sotto molti aspetti, libero dai diktat dell’autoreferenzialità, della piacioneria firmaiola e da salotti tv a suon di denari, del dolo perpetrato da molti grandi padroni della stampa chissà perché (vi dicono qualcosa i 14 miliardi di euro del giro d’affari delle armi che vende l’Italia ai belligeranti africani?) – siamo impegnati sul fronte della verità senza frode, quella con cui molta stampa agisce usando l’arma del silenzio.

E il silenzio su tragedie come quelle del Tigray è doloso, non ci sono santi. Occorre fare un veloce passo indietro per capire le origini recenti (i “nodi” in ogni caso vengono da molto lontano) della guerra: nel 2018 il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che ha sempre mantenuto un ruolo decisivo nella regione, ha rifiutato la prospettiva di un partito unico a livello nazionale proposta dal primo ministro Ahmed Abiy, figura ambigua, un ex militare, il quale poi ha rimandato le elezioni nazionali a causa della pandemia, di fatto allungando il suo incarico.

Cornelia Isabelle Toelgyes

Così il Tplf ha indetto elezioni regionali indipendenti, provocando la durissima risposta del governo, che ha chiuso le “borse” spingendo il Tigray all’isolamento totale. Risultato: lo scoppio del conflitto. Per capirne di più, e soprattutto perché ci mostri la “fotografia” esatta della situazione, ho incontrato Cornelia Isabelle Toelgyes, vicedirettrice di Africa Express, newsmagazine online diretto dall’ex inviato del Corriere della Sera Massimo Alberizzi, “vecchio” amico del Quotidiano (con lui condivisi nel 2006 la difficile battaglia, poi vinta, per la liberazione di due nostri connazionali ingiustamente imprigionati nelle carceri di Nairobi, in Kenya).

Cornelia ha vissuto per oltre dieci anni in Africa ed è tra le colleghe italiane più esperte di quel Continente, che racconta ogni giorno, compiendo un lavoro immane e di rara precisione e attenzione.

Cornelia, l’attenzione mondiale adesso è puntata sull’Afghanistan. Ci sono però crisi dimenticate di cui nessuno parla, in testa la stampa italiana. Salvo qualche rara eccezione.

«Hai ragione. Per quanto riguarda l’Afghanistan lasciami dire però una cosa: dobbiamo avere la consapevolezza che il lavoro non è finito, che abbiamo lasciato tanti, troppi esseri umani in pericolo di vita, e non possiamo far finta di nulla».

Ci sono, dicevamo, guerre ignorate e popolazioni fantasma agli occhi del mondo. Tu ti stai spendendo molto per raccontare della guerra nel Tigray, a due passi da noi e della quale sappiamo davvero poco. A che punto siamo?

«Quali interessi ha il mondo per l’Etiopia? È questa la domanda che dobbiamo porci. Siamo comunque al punto che l’Onu ha dovuto ricordare a tutti, la scorsa settimana, che si tratta di un conflitto in atto dal 4 novembre del 2020, e che sotto ai nostri occhi indifferenti si sta consumando una catastrofe umanitaria. Secondo l’ultimo rapporto di Ocha, l’ufficio dell’Onu per gli Affari Umanitari, dallo scorso 20 agosto non sono più arrivati aiuti alimentari. I magazzini sono completamente vuoti. Eppure stiamo assistendo a una crisi gravissima, dovuta alla guerra, ma anche a altri fenomeni che hanno contribuito ad aggravare i problemi attuali, come la pandemia, l’infestazione di locuste, siccità, inondazioni, scontri etnici».

Uno scenario apocalittico…

«Sì. Cinque milioni e mezzo di persone nel Tigray e nelle regioni vicine, Afar e Amhara, sono alla fame. Non solo, il Dipartimento del Tesoro Usa accusa le truppe eritree di Asmara di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e quant’altro, addebiti ovviamente respinti categoricamente dalla dittatura che governa quel paese. In ogni caso la guerra, ovvio, ha un peso non indifferente anche dal punto di vista economico, L’inflazione cresce di giorno in giorno. L’accesso al credito diminuisce e cominciano a mancare gli alimenti nella grande distribuzione. Il conflitto sta prosciugando le casse: in poco meno di dieci mesi è costato oltre un miliardo di dollari. E prima della pandemia e dell’entrata in guerra, l’economia dell’Etiopia era considerata una delle più emergenti della regione, con una crescita annua del 10 per cento fino al 2019. Nel 2020 l’incremento è sceso al 6 per cento e ora, nel 2021 è appena al 2. Si prevede che il debito pubblico raggiunga 60 miliardi di dollari, ossia il 70 per cento del Pil».

So che Medici Senza Frontiere e Chiesa Cattolica sono andati via. I primi cacciati, letteralmente. Gli altri per motivi di sicurezza…

«Esatto. Nel Tigray mancano i servizi essenziali, anche le banche sono praticamente fuori servizio, altrettanto le telecomunicazioni, specie da quando i “ribelli” hanno riconquistato il capoluogo Makallé a giugno. Per non parlare delle scuole, oltre 7mila edifici scolastici sono stati danneggiati, se non distrutti; attualmente 1.42 milioni di studenti non possono frequentare le lezioni. Per quanto riguarda Medici senza Frontiere sono stati cacciati dal Tigray dal governo di Addis Ababa (Ababa è la dicitura esatta e non Abeba, ndr), la Chiesa cattolica etiopica, sì, ha invece sospeso gli aiuti umanitari nella regione per la crescente insicurezza».

Come si esce da questo tunnel?

«Devono deporre subito le armi, sedersi al tavolo delle trattative. Devono andar via le truppe straniere, quelle eritree intendo. E occorre subito far passare gli aiuti umanitari».

Perché tutti noi abbiamo il dovere di saperne di più?

«Perché anche in un giornale che si occupa di cose della sua regione ha il dovere di informare sui fatti che accadono altrove, essendo i calabresi, come tutti gli altri cittadini del nostro paese, cittadini del mondo. E si è cittadini del mondo si ha diritto e dovere di sapere che nel nord dell’Etiopia si sta consumando una delle peggiori crisi umanitarie della nostra storia. Come in altre aree del pianeta del resto. E se io abito a Reggio Calabria o in una città, che so, del Mississippi, ho il dovere di saperlo, di capire, di accrescere il mio pensiero critico e fare la mia parte poi in direzione del bene, come ogni goccia di un oceano: se ciascuna si ritirasse dal mare, questo piano piano scomparirebbe. Ecco perché, noi siamo gocce di un oceano, e tutte dobbiamo partecipare alla sua vita».

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