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Quanto siamo diventati brutti, sudici, infelici. Pensiamo ai due ragazzi di Bologna colpevoli di aver scambiato qualche bacio nell’attesa di un treno in una stazioncina delle Cinque Terre dopo una giornata al mare, colpiti al volto e fin dentro alle belle strade dell’anima, violati da un branchetto di uomini piccoli piccoli; guardiamo il viso tumefatto del giovane molisano colpevole di passeggiare mano nella mano con il suo fidanzato, su cui un ennesimo branchetto ha scaricato i suoi pugni nel pieno della riviera di Pescara. Tentiamo così un confronto con rabbie leggendarie: tengono il passo Hitler e le sue SS, e gli orchi della Terra di Mezzo perennemente incazzati. Un paese dove i diritti non hanno quasi più spazio è un posto dove non si può essere felici. Somiglia l’Italia, quella reale e social (che poi le due realtà vivono ormai in osmosi quotidiana), sempre di più alle oscure foreste di Tolkien, dove anche i rami degli alberi o gli intrecci delle rampicanti possono improvvisamente animarsi, strangolandoti.

Dove specchiarsi in un lago potrà essere fatale, visto che le sue acque sono infestate da mostri, soprattutto da quella sorta di orrido Grande Fratello (parlamentare, televisivo) che predica all’orecchio suggerendo il male, scavando, e con scaltrezza entrando nei pensieri di chi ha meno strumenti (la maggioranza), modificandoli a vantaggio elettorale. Un paese dove se la legge stabilisce che le discriminazioni per l’orientamento sessuale sono tali e quali a quelle razziali e quel Grande Fratello suggeritore di menzogne si straccia le vesti, non può essere un paese felice. Anche i vescovi deludono sul tema, trascurando di ricordare, peccato, che nel Catechismo della Chiesa Cattolica tre paragrafi, 2357, 2358 e 2359, richiamano espressamente all’accoglienza “con rispetto, compassione e delicatezza”, evitando “ogni marchio di ingiusta discriminazione”.

Abbiamo dimenticato molte cose, molta storia, moltissimo di quel racconto italiano che ha riguardato tutti e riguarda, perciò, tutti. Via via dimenticando, oggi si urla in Parlamento o nelle piazze tv a difesa di quella patria della quale non v’è ricordo alcuno evidentemente. O nulla si è mai saputo. Ecco perché poi milioni di poveri odiatori assunti come claque, una volta persuasi, schiacciati tra oblio e menzogna, non conoscono che il disprezzo tout court. Senza sapere, per esempio, che quei migranti a cui oggi augurano la morte in mare (perché questo è), sono uguali a tutti quegli italiani che partivano per le Americhe fuggendo dalla fame, in cerca di una vita più degna della sola cipolla, o della sola arancia, o della sola polenta mangiate al tramonto. Certo per i falsi mentori di questo popolo di “patrioti” è più agevole approfittare di un pubblico livellato sul basso, dove non esistono più conoscenza e senso critico, invece che mettersi un libro in mano e studiare per essere in grado, se eletti, di servire, e non di dar sfogo alla sola maligna passione di esercitare un potere. Di usarlo dunque non per il bene vero di quella (astratta) patria che essi declamano e intendono tutelare, al punto da chiedere quasi l’impiccagione di un giovane cantante afroamericano (italiano di adozione) che per l’emozione dimentica una strofa dell’Inno di Mameli, ma per un bene da falsari, di quel bene da cani arrabbiati, come dicevano i nostri nonni. Abbiamo dimenticato, in uno scenario così, anche il più chiaro tra i diritti, quello di amare. E il diritto di un essere umano di amare per ciò che sente.

E abbiamo dimenticato la storia, quella tra le più orrende, di appena qualche decennio fa. A Birkenau, il più grande campo di concentramento nazista, sulla cosiddetta banchina di scarico tra le migliaia di prigionieri che venivano selezionati tra coloro che sarebbero stati immediatamente uccisi e tra quelli che invece sarebbero stati utilizzati come schiavi, non c’erano soltanto ebrei, ma anche omossessuali. Era una grave colpa esserlo. Arresti, linciaggi, deportazioni. Il paragrafo numero 175 del codice penale tedesco, datato 1871, fu reso ancora più aspro con l’avvento al potere dei nazisti: due uomini non possono amarsi, è un “atto osceno”, e anche soltanto le “fantasie omosessuali”, testuale, sono punibili. Anche 10 anni di carcere, e più in là con la deportazione appunto, e la morte nei campi di sterminio. Dal 1933 al 1945 furono oltre centomila le persone arrestate a causa di quel numero 175, e di queste 15mila furono internate nei campi, dove ne morirono quasi 10mila.

Gli omosessuali erano oggetto di torture e lavori durissimi, e quel triangolo rosa con il quale venivano marchiati all’ingresso, ovvero un colore ad hoc poco virile e visto in una accezione dispregiativa, era come un lasciapassare a violenze di ogni sorta. Cavie per esperimenti medici della follia nazista, per esempio. Nel 2007 lo storico Klaus Mnller intervistò cinque tra i 4mila sopravvissuti dell’Omocausto, l’Olocausto degli omossessuali. Ne venne fuori un film documentario sconvolgente, che fece un po’ di luce su una tra le pagine più nere e meno analizzate della storiografia del Terzo Reich. Karl Gorath, Heinz Dörmer, Pierre Seel, Albrecht Becker ed Heinz “F”, i protagonisti, raccontarono in “Paragraph 175” una storia dell’orrore. Alle donne omosessuali non era riservato un migliore trattamento, anzi. Il paragrafo non contemplava punizioni, ma per un abominio forse peggiore: la donna è inferiore all’uomo, dunque non necessita di un castigo della virilità. Così le lesbiche, numerosissime nei campi di concentramento, marchiate con un triangolo nero, venivano “usate” anch’esse per gli esperimenti, oppure costrette a prostituirsi come a Flossenburg, a totale disposizione dei gerarchi.

Nell’Italia fascista, lo sappiamo, gli omosessuali venivano perseguitati, picchiati, confinati, licenziati dagli uffici pubblici. Che differenza c’è, dunque, tra i pugni sui volti di quei ragazzi, e i pugni politici delle destre, con ciò che accadde in quel tempo? Riflettiamo, nessuna. Allora chi si dice difensore dei diritti abbia gli attributi e difenda l’amore a spada tratta. Perché il genere, non c’entra. E si smetta di essere ipocriti, si smetta di dire “non sono omofobo, ma…”. Invece di filmare le aggressioni, diamo in testa agli orchi di Tolkien la telecamera, e gridiamo: sono omosessuale anche io, picchiate anche me.

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