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Enrique Irazoqui con Pier Paolo Pasolini a Matera in una pausa della lavorazione del Vangelo secondo Matteo. (foto di Domenico Notarangelo)

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Sono ripetitivi gli anniversari, altrimenti non sarebbero anniversari. E tristi perché oscurano e rendono inutile tutto il resto del tempo che passa. Ecco perché non bisognerebbe mai ricordarli. Quest’anno, però, per i quarantacinque anni dalla morte di Pasolini, è morto anche Gesù. Il Gesù di Pier Paolo. Il 19enne antifranchista, marxista e ateo di Barcellona, Enrique Irazoqui, che Pasolini volle sulla croce per il suo Vangelo secondo Matteo.

È morto anche lui, per la sua prima volta, 45 anni dopo il suo regista. Stavolta non lo ha lasciato solo a sopportare il peso della commemorazione, della solita memoria senza verità e di ciò che su quell’assassinio non aveva mai tollerato: il parlare a vuoto, i molti sospetti senza riscontro e le tante trame senza luce che si erano susseguite per quarantacinque anni da quella domenica mattina di Passione senza Resurrezione all’Idroscalo di Ostia.

È morto a settembre scorso, Enrique. A 73 anni, molti di più dei 53 di Pier Paolo. È morto senza aver mai voluto vedere quel film dove non si piaceva ma che gli aveva regalato, contemporaneamente, l’immortalità terrena, quella inverosimile di un Messia nel quale non credeva e il miracolo di un’amicizia immediata e radicale.
Nel viso e nel corpo di Irazoqui, proprio come sulla terra della Calabria, in Puglia, in Basilicata, a Roma e nel Lazio, Pasolini trovò finalmente il suo Vangelo.

Nel Sud Italia e nel giovane catalano trovò finalmente ciò che a lungo e inutilmente aveva cercato nei luoghi e nei volti della Palestina: “Gli Ebrei sarebbero inutilizzabili. E le facce degli Arabi sono facce in cui non è passata assolutamente la predicazione di Cristo, neanche da lontano”, annotava nei Sopraluoghi. Ai confini della Giordania scriveva: “Queste montagne sono molto simili alle montagne del Crotonese (…) tra Cutro e Crotone, sulle rive dello Ionio. E questi oliveti sono esattamente gli oliveti della Puglia, intorno a Taranto, intorno a Bari”.

Enrique/Gesù, il Poeta lo scelse nel ’64 appena lo vide, ragazzo/figlio di una madre italiana nata a Salò. La stessa Salò, undici anni più tardi, delle 120 giornate di Sodoma, insopportabile ed eterno scandalo antifascista, che Pasolini andava realizzando soffrendo anche nel corpo, mentre si avvicinava la fine e si preparava la scoperta in riva al mare di Roma, nella mattina del 2 novembre 1975, di quel mucchio di stracci, forse immondizia, forse una bomba inesplosa, in realtà il corpo martoriato e quasi irriconoscibile di Pier Paolo.

Fino all’ultimo giorno e anche dai social (in tanti siamo stati suoi “amici”) Enrique, accademico senza snobismi, ha amato e rimproverato il suo Pier Paolo. Lo ha condiviso.

Parlava con lui al presente, ma non facendo finta che non fosse morto. Tutt’altro. Gli teneva compagnia, lo interrogava, gli sorrideva. Non lo lasciava mai, nonostante non avesse illusioni di aldilà. Lo custodiva, ricordando a se stesso e a tutti noi che c’era, il Poeta, anche se di questo mondo non poteva più fare parte. Molto più giovane com’era – ormai da tempo – del suo Gesù.

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