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L’Ilustrazione del massacro

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«Il popolo gli diede sopra, e lo lacerò tutto, lasciandoci sopra quasi solo le ossa. Fu ridotto a brani dalla carnivora plebe. Forse tutto fu abbrustolito e mangiato. Il fegato so che fu ridotto a cottura, e mangiato tutto nell’istesso Mercato dalla vil plebe sanfedista. Un lazzaro avendo ricusato di mangiarne, fu ammazzato».

La terribile descrizione qui citata fa riferimento al tragico epilogo dell’impiccagione del patriota giacobino, Nicola Fiani, avvenuta il 29 agosto 1799, durante la cosiddetta anarchia sanfedista, che segnò tragicamente la storia di Napoli con la riconquista della capitale da parte delle armate del cardinale Ruffo contro i patrioti meridionali che avevano aderito alla Repubblica nata sugli ideali di quella francese.

Quella del cronista Diomede Marinelli, è una delle centinaia di fonti, rintracciate, studiate, analizzate dallo storico Luca Addante, docente di Storia moderna a Torino e di origini calabresi, che compongono l’ossatura del volume appena pubblicato da Laterza “I cannibali dei Borbone. Antropofagia e politica nell’Europa moderna”. Un libro che a pochi giorni dall’uscita ha registrato l’attenzione della critica specializzata con lodevoli e ampie recensioni su La Stampa e il Mattino, ma soprattutto ha acceso vivaci discussioni social sulle pagine dei neoborbonici che, se in prima battuta hanno urlato al falso degli ultrà, si sono poi tacitati con senso di responsabilità riconoscendo l’ineccepibile documentazione di Addante su un argomento che non solo è un rimosso meridionale e partenopeo ma dell’intera cultura europea.

Il merito dell’autore è stato, infatti, di poggiare molto su documenti e fonti borboniche che scrutano i cannibaleschi avvenimenti che la violenza politica portò tra le piazze insanguinate di rivoluzione e controrivoluzione.

Notizie sono tratte dalla relazione interna della Confraternita dei Bianchi, che si occupavano di assistere i condannati a morte e certo non potevano essere tacciati di giacobinismo, e da molteplici testimoni borbonici, che dissentivano dalla deriva sanguinaria presa dai lazzari che presero in ostaggio Napoli, con la contrarietà anche del cardinale Ruffo che abbandonò la guida politica davanti al “laissez faire” della monarchia borbonica.

Addante con scrupolo storico documenta e illustra la violenza estrema, ma va oltre Napoli, e si sporca le mani con il tabù estremo del cannibalismo ponendo in sequenza tutti gli episodi di una storia negata e di parte, rimossa dagli europei per calcolo, considerato che fu adoperata per giustificare il colonialismo nei confronti degli indigeni degli altri continenti, che essendo cannibali non venivano considerati umani.

La parola, infatti, fu coniata da Cristoforo Colombo che con successo poi la consegnò all’imperialismo eurocentrista. Fuori dal vecchio continente il cannibalismo è molto studiato, in Europa rimosso.

In Europa dal medioevo al Rinascimento al Seicento (richiamato in copertina) numerosi furono gli episodi di cannibalismo legati alla ferocia della lotta politica (spesso religiosa) che hanno fatto registrare l’uomo che mangia il proprio simile come estremo disprezzo.

Addante non risparmia la Rivoluzione Francese e scopre un caso inedito, quello dello scaricatore di pietre, Pierre Hèbert, che confessa con nonchalance alla polizia di aver partecipato al macabro banchetto di un ufficiale borbonico, come se fosse la vicenda più naturale del suo mondo.
È questo uno scarto decisivo di questo nodale studio storico. Nelle cantine della storia scopriamo che anche noi siamo stati cannibali e abbiamo rimosso questa verità per questioni politiche e antropologiche. Addante ci mostra i fatti e li argomenta alla luce di classici illustri che mancavano di indizi preziosi.

Alla curata sintesi di cento pagine narrate con avvincente scrittura (mentre un terzo del libro annota con il puntiglio cui l’autore ci ha abituato nei suoi precedenti libri i riferimenti bibliografici e d’archivio) se devo far una critica è quella di aver poco osato sul significato del cannibalismo nell’immaginario moderno che hanno descritto letterati italiani estremi, molto cinema di sottogenere e d’autore, e i serial killer dei tempi nostri. Ma forse era questo tema troppo ardito per uno storico di professione e avrebbe rischiato di andare fuori traccia.

Il libro è avvincente per lo studioso e il curioso. Riapre il dibattito sulla cultura popolare. Segnalo, ad esempio, le importanti chiose sulla figura dell’Orco nelle favole di Calabria. E a proposito della nostra regione, non ci sfugge il ripetere del dato che la Santa armata del cardinale Ruffo fu chiamata dei calabresi, forzando il dato della partecipazione dei nostri regionali sanfedisti, causata dal fatto che la prima adunata avvenne in Calabria aumentando i pregiudizi oscurantisti sulla nostra identità.

Il libro oltre ad illustrare il grande rimosso del cannibalismo europeo ha il merito di aggiungere pagine importanti sull’antropologia storica del sanfedismo.

Altro tema rimosso da recuperare, e diamo merito all’autore di prendere posizione sulla dinastia dei Borbone dipinta oggi come moderna e illuminata dai suoi numerosi sostenitori, è che invece teneva nell’ignoranza oltre l’ottanta per cento della sua popolazione. E anche questo è cannibalismo e storia negata.

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