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Il regista Gianfranco Cabiddu

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CONTINUANO le nostre incursioni nel cinema fuori dagli sche(r)mi. Questa settimana abbiamo “incontrato” Gianfranco Cabiddu. Premiato dalla Cineteca della Calabria con il Premio Mario Gallo per il film La stoffa dei sogni nello stesso anno del Globo d’oro assegnato dalla stampa estera accreditata in Italia, il regista è esponente di un cinema etno-antropologico di matrice letteraria, fortemente legato al percorso di ricerca identitaria della sua regione, la Sardegna, terra di approdo realistico e insieme immaginario dei suoi personaggi.

Come e quanto ha influito la pandemia sul suo lavoro di regista?

«Se la pandemia mi avesse beccato in un momento in cui ero sul set, sarebbe stato devastante. Per fortuna in questo periodo sto scrivendo il prossimo film per cui sì, ha rallentato tutto, ha reso tutto quasi irreale però non mi ha ferito più che tanto perché lavorando in casa sono riuscito ad andare avanti. Per una parte del lavoro. Per l’altra parte, quella legata all’incontro con gli altri sceneggiatori – soprattutto con Chiti che abita a Firenze invece io ero in Sardegna durante la pandemia – ovviamente tutto è rimandato a quando sarà possibile rincontrarsi perché il rapporto umano e il lavoro dal vivo è determinate nel nostro mestiere».

Nel panorama del cinema italiano non è solo un regista ma una personalità profondamente eclettica. Infatti è passato dal documentario antropologico al cinema di finzione e, contemporaneamente, ha competenze specifiche nel settore musicale e del sonoro.

«Non ho badato a fare una carriera in un solo settore ma, venendo dalla musica, ho curiosità per tantissime altre cose. Nella prima parte della mia vita ho lavorato molto sui documentari etnografici. Oggi lavoro in rapporto molto stretto con la parte musicale. Dirigo un Festival che si chiama Creuza de Mà-Musica per Cinema che si svolge in Sardegna, nell’isola di Carloforte, a Cagliari, ed è proprio dedicato all’incontro tra la musica e il cinema. Di solito invitiamo un regista e il suo musicista per parlarci di questo rapporto misterioso tra musica e immagini. Mi interessa, ovviamente, fare il cinema e la regia. come nel caso del mio ultimo film Il flauto magico di piazza Vittorio fatto in co-regia con Mario Tronco e l’Orchestra di piazza Vittorio che ha vinto un David di Donatello per la musica. Essendo il film un musical accomuna un po’ tutti noi che – dalla scenografia, ai costumi, alla fotografia – abbiamo “vestito” la musica dell’Orchestra di piazza Vittorio da Mozart. È un lavoro che non partiva proprio da me da un punto di vista autoriale ma si è rivelato una gioia perché mi ha consentito di sperimentare, di lavorare a stretto contatto con i musicisti e di dar vita a qualcosa che, in fondo, mi appartiene».

Parliamo di Sardegna, una regione ricca di storia e di una propria cultura. Qual è il bagaglio culturale e umano che si porta dietro un etnomusicologo come lei e quanto questo ha influenzato il suo cinema?

«La Sardegna, come tutte le isole – come dice Kavafis nella sua meravigliosa poesia – è una terra a cui si fa ritorno, è una terra con cui si fanno i conti perché, comunque, non regala niente se non il viaggio dentro di te e quello che vuol dire incontrare il mondo. Perché poi ritorni nell’isola e non è che ti si aprano tutte le porte. Anzi, il più delle volte il ritorno diventa difficile, come è stato difficile per Ulisse. Ma la Sardegna essendo anche un’isola abbastanza chiusa, ha delle profondità, degli aspetti che sono forieri di stimolo, di storia. Ambientare un film qui è ambientarlo in qualcosa di non assimilabile ad altre ambientazioni che si possono trovare in giro nel mondo. Non meglio, non peggio ma sicuramente originale».

Negli anni ’90 sono nate in Italia le Film Commision che hanno cambiato profondamente il panorama produttivo del cinema italiano delocalizzando i complessi procedimenti che sono alla base della nascita di un film. Però, il cinema nelle diverse regioni italiane si faceva anche prima. Quando Vittorio De Seta girava Banditi a Orgosolo in Sardegna, le Film Commission non esistevano. Come giudica, allora, il ruolo e l’operato di queste strutture, con particolare riferimento a quelle delle regioni meridionali?

«Le Film Commission nascono per essere un volano e una struttura che stimola l’incontro tra quello che c’è fuori e quello che c’è dentro una regione. Mettono in contatto le realtà locali di cinema con le realtà nazionali. Non sempre questo è vero perché, come dicevi nella domanda, Vittorio De Seta ma anche io in Disamistade o ne Il figlio di Bakunin, abbiamo girato senza. Il loro lavoro lo facevano gli autori che mettevano in connessione il mondo cinematografico con la realtà regionale. Le film Commission, quindi, sono un volano prezioso quando agiscono in questo senso, stimolando gli attori locali a mettersi in gioco per attirare anche investimenti nazionali. Possono diventare un pericolo quando agiscono da istituto autonomo regionale, cioè quando dettano le regole o gestiscono in maniera “produttiva” gli apporti che possono avere dalla regione per stimolare, invece, l’incontro con le altre cinematografie. Questo diventa un pericolo perché rischia di chiudersi nei confini regionali e rischia di essere una visione autoreferenziale del lavoro sul cinema che, per sua natura, è incontro tra persone diverse, incontro tra realtà produttive diverse, incontro tra artisti diversi. Per esempio, nel caso del mio film La stoffa dei sogni, da Shakespeare ed Eduardo, l’ambientazione all’Asinara era un’ambientazione unica per i significati di un’isola-carcere che erano incarnati nella storia che raccontavo ma anche per l’idea di vedere una Sardegna mai vista al cinema. In questo senso, il convergere della volontà artistica, della volontà di un produttore nazionale con una realtà sarda, ha creato quell’insieme che è l’incontro auspicabile per ogni progetto, tra territorio e mondo. In quel caso, poter essere sostenuti da una Film Commission, raggiunge il suo apice».

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