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LO HANNO accostato a Dorando Pietri che a Londra più di un secolo fa perse l’oro olimpico stremato sul finale di una maratona dalla quale poi venne squalificato per essere stato aiutato dagli arbitri a tagliare il traguardo. Marco Aurelio Fontana, però, la sua medaglia l’ha vinta: è un bronzo e anche se poteva essere un metallo più nobile resterà un’impresa. Perché gli ultimi due chilometri della sua prova di mountain bike lui li ha corsi senza il sellino che si era staccato a causa dei contraccolpi sul terreno.

 

Quattro minuti solo sulle gambe, con gli avversari che incombevano per cacciarlo dal podio. Ma alla fine il traguardo lo ha tagliato al terzo posto, con la canotta bianca piena di terra che sa di sacrificio. E lui dei suoi sacrifici è orgoglioso. Come delle sue origini. Perché Marco Aurelio Fontana è brianzolo sì, nato in un comune che si chiama Giussano, luogo sacro per i leghisti. Ma il suo sangue è calabrese. Giuseppe, il papà del campione, è emigrato da Annà di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. E lui, Marco Aurelio, a chi lo interroga risponde: «Sono un calabro-italiano». 

 

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E se non lo ha ripetuto al termine della sua gara olimpica, è stato solo perché aveva un altro sassolino da togliersi dalle scarpe. Ai cronisti che lo hanno avvicinato ha detto: «Non vi abbiamo visto per quattro anni ed ora che ho vinto l’unica medaglia del ciclismo italiano, siete tutti qui. Non parlo». Se non è carattere calabrese questo.

 

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