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L'aula bunker di Lamezia Terme dove si sta celebrando il maxi processo Rinascita Scott

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VIBO VALENTIA – Prosegue la deposizione del del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena al processo “Rinascita-Scott” che, sollecitato dal pm della Dda, Antonio De Bernardo, ha riferito di numerose circostanze per averle apprese da altri o per esserne stato partecipe diretto.

I biglietti del circo e l’intenzione di sparare agli animali

“Io compravo i biglietti quando portavo mio figlio”, racconta Bartolomeo Arena perché “ritenevo fosse corretto così e per evitare di essere nel mirino dei poliziotti”. Ma questa condotta non era la stessa del clan che pretendeva biglietti e contributi economici dalle attività circensi o dai giostrai: “Quando arrivavano a Vibo, Tomaino andava a chiedere biglietti gratis su disposizione di Morelli o Pardea. La metà, tuttavia, veniva data ai Lo Bianco-Barba. Anche Orazio Lo Bianco, per conto di Leoluca Lo Bianco e factotum dei Pugliese, faceva lo stesso per via di una precedente amicizia con quelli del circo. E questo non piaceva a Francesco Antonio Pardea che, per come mi disse Chiarella, voleva anche sparare agli animali. Se poi l’attività era grossa le veniva chiesto un contributo economico”. Non era una questione di arricchimento di questo o quell’altro gruppo ma di prestigio criminale, commenta Arena.

Rosario Pugliese, alias “Cassarola”

La storia del capo della frazione è stata illustrata ampiamente da Bartolomeo Arena che è andato a ruota libera sull’imputato definendolo “l’unico di livello superiore nella famiglia, criminalmente parlando e la loro zona era quella dell’Affaccio, a Vibo città”.

La decapitazione di Cecchino Pugliese e la sparizione di Pardea

Tutto nasce, all’inizio degli anni ’80, da quando “Rosario Pardea fu sfidato da Cecchino Pugliese, fratello di Saro Pugliese – chiamato “Cecchino Bang Bang”, tanto che ferì sua madre e suo fratello piccolo – il quale gli disse che gli avrebbe sparato in testa. Pardea se la legò al dito – racconta il pentito che afferma di aver appreso la vicenda da Francesco Antonio Pardea – e chiamò uno dei fratelli Tambuscio per fargliela pagare al quale disse: Lui diceva che mi avrebbe sparato in testa e tu la testa gliela devi tagliare”. Con uno stratagemma Pugliese fu portato a Cosenza per fargli vedere delle armi e “lì venne ammazzato, con l’aiuto del gruppo Perna e gli venne tagliata la testa”. Scattarono le “indagini” da parte dei familiari dello scomparso per capire i responsabili e dal “carcere arrivò l’ordine di uccidere Francesco Antonio Pardea (zio omonimo dell’attuale imputato, ndr): questi fu portato da Piromalli e Saro Pugliese in auto in una zona isolata e quest’ultimo gli sparò mentre erano in macchina. Poi, fu prima sotterrato in un luogo e dopo, visto che stavano edificando dei palazzi, il corpo fu spostato altrove. Era l’82-’83”.

I fratelli Tambuscio uccisi e bruciati nel forno

Nel 1986 esce dal carcere per scadenza termini Francesco Fortuna, alias “Pomodoro”, che aveva saputo, per bocca dei cosentini, che “Tambuscio si era vantato dell’uccisione di Cecchino Pugliese. E così, lo convocarono con il fratello che non c’entrava nulla, e l’incontro avvenne in un di un capannone”. La trappola era scattata: “Ad un certo punto spunto Rosario Pugliese chiedendo loro i motivi dell’uccisione del fratello. Alla fine entrambi vennero eliminati i loro cadaveri bruciati nel forno presente nel locale, per come mi raccontò Salvatore Tulosai”. Un delitto efferato “favorito anche da tanti altri personaggi” sull’identità dei quali il pm ha stoppato il collaboratore. Nell’88, con l’uccisione di Ciccio Fortuna, i “Cassarola” restano “legati ai Lo Bianco-Barba fino all’operazione Nuova Alba (anno 2007)”.

Gli attriti con i Caserta

Indicati dal teste come vicini ai Narciso, che interfacciavano col ramo di Antonio Mancuso, vengono tirati in ballo per il ferimento ai danni di Filippo Di Miceli, nei primi anni ’90, che si trovava insieme a Carmelo Lo Bianco. “I Caserta però fecero sapere ai Lo Bianco stessi che l’obiettivo era unicamente Di Miceli al quale, nel frattempo, mi ero avvicinato perché lo conoscevo e perché era stato lasciato solo. Lo venne a sapere Antonio Grillo, alias Totò Mazzeo, oltre i Lo Bianco che mi chiesero spiegazioni al che li rassicurai che non avevo propositi di vendetta verso di loro”. La rivalsa di Arena, di riflesso dell’amico, infatti era rivolta ai Caserta ed avvenne poco tempo dopo, con il ferimento di “Massimo Caserta che fu attinto al polpaccio con la pistola che mi diede Melo Pugliese”.

Le frizioni di Arena coi Pugliese

Varie le motivazioni ma in particolare tre: “Un giorno Angelo Papalia, cognato di Carmelo Cassarola, fece il gradasso con me e gli misi una pistola in bocca mentre con l’altra mano lo schiaffeggiai. Carmelo arrivò in suo soccorso e con lui ebbi un’animata discussione fino a quando non ci divise Rosario”. Altra motivazione avrebbe riguardato un cugino dei Pugliese per questioni sentimentali che poi sfociarono nel ferimento di uno zio del collaboratore da parte del primo. “Da lì in poi, coi “Cassarola” non andammo più d’accordo”, ha riferito Arena narrando inoltre anche del “progetto omicidiario, fallito, nei confronti di Antonio Pugliese”. L’ultimo tentativo di agguato avvenne a Bivona: “Dovevo sparare a Sarino Pugliese, cercai di sparargli ma, complice le urla di alcune ragazze che mi videro, lui riuscì a scappare”.

I “Cassarola” e il niet alla nuova Locale

Siamo nel 2012, a Vibo città si forma una nuova Locale di ’ndrangheta a trazione Lo Bianco e nella quale vi erano lo stesso Arena, Francesco Antonio Pardea e, tra gli altri, anche molte giovani leve. A questa entità, però “i Pugliese non vollero aderire ma ciò comportava per loro dei divieti: estorsioni ad esempio”. I Pugliese, tuttavia “continuando ad avere delle rapporti coi Lo Bianco Barba ai quali sono legati anche da vincoli di parentela, e facendosi forti di questo, non venivano toccati. Noi pensavamo, intesi quelli del mio gruppo stretto, pensavamo di metterli sotto ma ci sbagliavamo. Loro erano troppo furbi. Ad esempio, quando si sentiva minacciato, cambiava sempre percorso se vedeva un’auto che la seguiva per più di cinque minuti”.

La guerra sfiorata nel 2017

Ne ha già parlato nelle passate udienze. A Vibo si sfiorò per un soffio la guerra tra clan. La causa scatenante fu il ferimento di Nazzareno Pugliese ad opera di Domenico “Mommo” Macrì perché lo aveva guardato male. “Lui mi raccontò quanto avvenuto e, capendo la gravità della situazione, cercai di mettermi in contatto con Francesco Antonio Pardea riuscendoci solo a tarda sera; quindi avvisai Antonio Macrì (padre di Mommo) e Giuseppe Camillò e ci mettemmo in auto per cercare di intercettare Cassarola. Ci dissero di averlo visto nei pressi del Despar, vicino casa di “Mommo” e lì, quindi, ci recammo. In effetti, Rosario Pugliese era sul posto, ad un tratto ci notò e ci seguì; noi facemmo una manovra e ce lo ritrovammo di fronte. Proprio mentre stava per scendere, pronto a spararci, come del resto poi avvenne, ci allontanammo favoriti dal fatto che proprio in quel momento passò una signora dal Despar e per noi fu l’occasione per allontanarci; sentimmo i colpi ma non fummo colpiti”. Domenico Macrì, una volta appreso quanto avvenuto, “si sentì in colpa e andò all’Affaccio a sparare alle case e alle auto dei Pugliese accompagnato da Daniele La Grotteria. qualche giorno dopo Domenico Camillò e Luigi Federici commisero la sparatoria al circolo “Il Gallo”, gestito da Carmelo Pugliese, perché gli era arrivata l’imbasciata che lì davanti c’era il fratello Rosario Pugliese. Quando giunsero sul posto lui non c’era, ma spararono lo stesso”.

La rappresaglia dei “Cassarola”

Di certo non sarebbero rimasti fermi a guardare, “contrariamente a quanto pensava “Mommo” Macrì”. All’inizio, tuttavia, per evitare che i riflettori delle forze dell’ordine, ormai comunque già accesi, continuassero a restare tali e portare ad operazioni di polizia giudiziaria, i clan si mossero per far appianare tutto: “Ci furono tentativi di mediare – afferma ancora Arena – ad esempio da parte del cognato di Andrea Mantella, Antonio Franzè, al quale dicemmo di farsi da parte, poi di Vincenzo Barba. Tuttavia, Antonio Macrì, padre di Mommo, ci consigliò di non andare oltre con le azioni e questa linea venne sposata da tutti, anche all’esterno del nostro gruppo, vale a dire dai rivali”. Ma ovviamente si trattava di una farsa, accentuata dal rinvenimento, poco tempo dopo, nei pressi della banca Carime, di una Panda rubata, una moto, e una pistola calibro 9×19: “Da lì si capì che si stava progettando un agguato nei nostri confronti. Quindi mi incontrai in località “Gallizzi” con Francesco Antonio Pardea e Domenico Macrì i quali mi dissero che sarei dovuto andare a prendere Orazio Lo Bianco e, con la scusa di fargli fare un giro in auto, portarlo dagli altri per farci dire di chi fossero l’arma e i mezzi rubati”. Ma il collaboratore a quel punto, per proteggere Lo Bianco, in quanto “se anche non avesse ammesso un loro coinvolgimento, sarebbe comunque stato ucciso”, finse “che questi non mi salutava più e per far credere che la cosa fosse vera gli dovetti davvero togliere il saluto”. Si sarebbe pensato anche di piazzare una bomba per uccidere Saro Pugliese, ma alla fine “si ritenne di non fare nulla perché sarebbero potuti restare coinvolti innocenti. Se fosse stato per Mommo Macrì lo avrebbe fatto saltare in aria dentro l’ospedale”.

I legami con la camorra di Secondigliano

A far drizzare le orecchie al collaboratore di giustizia fu proprio il rinvenimento della moto, dell’auto e della pistola e quindi mise tutti sul chi va là, anche perché “il figlio di Saro Pugliese era sposato con una ragazza la cui famiglia fa parte della camorra di Secondigliano”; tuttavia nel gruppo “c’era chi non dava molto peso a tutto questo”. Non solo, lo stesso sodalizio di appartenenza aveva iniziato col far capire allo stesso pentito che era meglio guardarsi dai suoi sodali: “Mi dissero che l’agguato doveva essere rivolto a me e inoltre Antonio Macrì aggiunse che quando ci sparò Saro Pugliese i colpi erano indirizzati a me. Col tempo non iniziai col non rispettarlo più”.

Le onoranze funebri e le cappelle date ai boss e sottratte ai cittadini comuni

Secondo il collaboratore il clan Lo Bianco Barba aveva il monopolio della gestione dei loculi che sarebbero stati venduti a peso d’oro: dopo essere stati svuotati delle spoglie dei “legittimi proprietari”: “Orazio Lo Bianco – racconta – aveva preferito inserire i “Cassarola” nel redditizio business delle onoranze funebri, avviato nel 2014, anziché i suoi familiari, tant’è che Saro Pugliese era socio occulto della sua ditta. La sua famiglia aveva in mano il cimitero di Vibo, quindi le cappelle nelle quali venivano eseguiti i lavori, e insieme al custode ne hanno combinate di tutti i colori. Andrea Mantella, ad esempio, aveva una cappella antica sottratta a persone che risiedevano fuori e che non venivano più a Vibo, dove erano state rimosse le spoglie dei defunti e gettate chissà dove. Gli era stata data in quanto era Andrea Mantella, e quindi gli spettava, ma neanche lui sapeva l’ubicazione precisa. Ad un certo punto, venne rimosso il cognome dalla struttura per non dare nell’occhio”. E per far comprendere quanto i clan avessero influenza sul cimitero del capoluogo, Arena evidenzia che “se i “Cassarola” decidevano di non concedere i loculi, allora non c’era nulla da fare. Un business che a quanto so fruttava anche 50mila euro”.

Il business dei carburanti e gli interessi nell’ospedale

Antonio e Rosario Pugliese sarebbero stati anche interessati al settore dei carburanti, soprattutto nel nord Italia mentre Orazio Lo Bianco nel Vibonese. Per l’ospedale di Vibo, invece, “Antonio, Carmelo e Rosario Pugliese erano attivissimi da almeno 20 anni, ma anche Orazio Lo Bianco lo era. I primi, in particolare, ricorrendo a truffe su assicurazioni riguardanti incidenti stradali, grazie al favore di medici compiacenti, riuscivano ad avere un sacco di soldi”, ha riferito il teste, facendo il nome di una mezza dozzina di sanitari non imputati nel processo. E “Orazio, visto che si dava delle arie per queste sue attività nell’ospedale, fu schiaffeggiato un paio di volte da Mommo Macrì che gli fece abbassare le ali”.

Il progetto omicidiario verso i Lo Bianco-Barba

Quando Arena Pardea e gli altri formarono un altro gruppo, staccandosi dai Lo Bianco-Barba, “Antonio Macrì, che era il contabile del clan, inizialmente non seguì le nostre orme, ma poi se ne uscì perché il figlio “Mommo” voleva farli fuori e a lui non è rimasta scelta. A quel punto, noi chiedemmo a Macrì di indicarci dove i suoi ex sodali fossero soliti riunirsi per “prenderli” tutti, ma lui ci rispose che non dovevamo nemmeno permetterci di fare una domanda del genere. E quindi non se ne fece nulla. Tuttavia all’interno del loro gruppo avevamo chi ci riferiva di quello che facevano”.

L’estorsione per i lavori alla villa comunale

Neanche uno dei polmoni verdi del capoluogo è rimasto escluso dalle mire di clan vibonesi. Una vicenda recentissima che avrebbe visto protagonista non solo il collaboratore ma anche Raffaele Franzè, alias “Lo Svizzero”, uno dei presunti capi della consorteria che “si prese l’estorsione per gli interventi di rifacimento della villa comunale che aveva vinto una ditta di Catania la quale, ben consapevole che a Vibo avrebbe potuto avere problemi, risolsero ogni questione con Raffaele Franzé per il tramite dei Giannini visto che uno dei suoi dipendenti era il genero di questi ultimi. Io dovevo solo andare sul cantiere a chiedere se fosse tutto a posto e questo mi fruttava circa 500 euro al mese”.

La massoneria

Anche ad Arena fu chiesto di entrare nella massoneria. Lui non lo fece ma fu destinatario dei racconti di Fortunato Mantino e Salvatore Tulosai, con il secondo che al tempo “era in procinto di entrarvi”. E “ad esempio nell’ordine dei Cavalieri di Malta, vi erano personaggi molto influenti, nell’ordine dei politici molto importanti e che erano soliti sistemare reciprocamente i propri familiari. Mi ricordo che prendevano grossi appalti e proprio per questo lavorammo anche al Pirellone, a Milano”.

Carmelo Chiarella e l’incendio al teatro nuovo

Secondo Bartolomeo Arena, per averlo appreso da Pardea, Chiarella, su mandato di Salvatore Morelli, fu “l’autore dell’incendio alla scuola professionale di Vibo e del teatro di Vibo nonché di alcuni mezzi impegnati nella costruzione della struttura. Inoltre faceva truffe assicurative e usura oltre a recarsi presso determinati soggetti per dire loro di mettersi a posto”.

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