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L'aula dove si sta celebrando il processo Rinascita Scott

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VIBO VALENTIA – Spuntano nuovi verbali di interrogatorio degli ultimi collaboratori di giustizia vibonesi, Michele Camillò, figlio di Domenico, classe 1941, considerato a capo del sodalizio criminale operante nel capoluogo di provincia, e Gaetano Antonio Cannatà (alias “Sapi tuttu”), sulle figure ritenute dagli investigatori legate agli ambienti criminali di Vibo Valentia.

LA FIGURA DEL PADRE, DOMENICO CAMILLÒ

Michele Camillò indicava il padre tra i promotori del “Buon Ordine” per conto dei “Ranisi”, a seguito del quale tuttavia cedeva la supremazia nel sodalizio a Vincenzo Vincenzo. Ciò nonostante, anche successivamente Domenico Camillò continuava a coordinare le dinamiche associative dei “Ranisi” e veniva chiamato a dirimere eventuali conflitti sorti all’interno del sodalizio.

Il verbale è quello del 20 agosto 2020: «Nel 2014-2015 Bartolomeo Arena si lamentò con mio padre in mia presenza che quest’ultimo, dopo essere stato il promotore, per conto del nostro gruppo criminale, della creazione del Buon Ordine, a seguito di tale formazione criminale aveva lasciato il sodalizio nelle mani di Vincenzo Barba. Io non venivo messo a conoscenza da mio padre delle questioni associative, anche perché in quella fase non ero nemmeno affiliato e successivamente avevo delle doti più basse. Pur non potendo sapere, per questi motivi, quale fosse il ruolo di mio padre in questo contesto, ho potuto chiaramente comprendere, tuttavia, da questo episodio che vi sto raccontando, che evidentemente mio padre aveva avuto un ruolo nella creazione del Buon Ordine – nel senso che aveva “unito” le varie componenti criminali esistenti a Vibo Valentia – per poi fare un passo indietro in favore di Barba».

Michele Camillò evidenzia di sapere che «fino alla sua morte, il leader indiscusso del panorama criminale vibonese era Carmelo Lo Bianco detto “Piccinni”. Quando venne a mancare, mio padre, secondo le regole di ’ndrangheta, era il soggetto più titolato a Vibo Valentia per reggere le sorti dell’organizzazione. Rispetto a questo scenario, mio padre ha svolto principalmente un ruolo nelle dinamiche associative, senza però arricchirsi, o quanto meno io posso dire che non vedevo entrare nella nostra casa denaro di provenienza illecita; ovviamente so che possedere una carica elevata generalmente significa anche aver commesso reati nel contesto dell’associazione di appartenenza, ma se questo è stato io non ne sono stato messo a conoscenza».

Circa l’episodio relativo alla lamentela di Arena nei confronti del genitore del pentito, quest’ultimo afferma che «mio padre ebbe un atteggiamento di accettazione della critica di Arena, nel senso che non contestò il fatto che le cose fossero andate esattamente come questi recriminava».

LE DINAMICHE ASSOCIATIVE

Con riferimento alle dinamiche associative del sodalizio, Michele Camillò, quando fece rientro a Vibo, nel 2015, trovò «una scissione all’interno del “Buon Ordine” ed una situazione completamente mutata. Il gruppo Camillò-Pardea si era separato dal “Buon Ordine” ed aveva formato una ’ndrina sciolta. Devo aggiungere che anche questa situazione presentava degli aspetti critici, pure all’interno della stessa ’ndrina. Col passare del tempo, infatti, il funzionamento di questo organismo criminale palesò tutti i limiti connessi alla mancanza di un vero e proprio unico capo, sovraordinato rispetto agli altri. In particolare, ai vertici della “’ndrina sciolta” vi erano senz’altro Mommo Macrì, Antonio Pardea e Salvatore Morelli, i quali tuttavia di fatto non rendevano conto a nessuno delle azioni criminali che commettevano, nel senso che non si coordinavano tra loro».

Il collaboratore aggiunge di aver inizialmente appreso che tale gruppo avrebbe dovuto rispondere delle azioni criminali a Totò Macrì, padre di Mommo, «soggetto più anziano e “titolato”, ma in pratica non lo facevano, intraprendendo spesso iniziative criminali all’insaputa degli altri o, comunque, senza una previa comunicazione. In sostanza, Pardea, Macrì e Morelli iniziarono a riunire attorno a sé i sodali più fidati, ponendosi di fatto a capo di altrettanti sotto-gruppi criminali che non di rado agivano in maniera scoordinata. In particolare, un gruppo era costituito da Morelli, Tomaino ed altri sodali, un altro si era formato intorno alla figura di Mommo e di esso facevano parte il fratello Michele, seppur in assenza di una formale affiliazione, mio nipote Domenico, Federici ed altri ragazzi a loro legati; un altro ancora faceva capo a Antonio Pardea e Arena, con Marco Ferraro».

Rispetto a questo assetto, il padre del pentito veniva sostanzialmente chiamato in causa solo quando c’era da risolvere qualche controversia, ovvero se c’era da porre rimedio alle «condotte sconsiderate di mio nipote Domenico».

L’INTIMIDAZIONE AL TRIBECA

Sul punto è Michele Camillò a parlare: «Posso riferire sull’intimidazione al pub Tribeca. Ricordo che un giorno mi trovavo al bar Cristal con Bartolomeo Arena, Antonio Pardea e Costantino Panetta. Poco dopo sopraggiunsero mio nipote Domenico Camillò (classe 1994) e Luigi Federici che consumarono un caffè con noi. Nella circostanza Arena e mio nipote si appartarono per parlare ed io notai che il primo si rivolgeva al secondo come se lo stesse rimproverando di qualcosa. Successivamente presso il mio negozio mio nipote Domenico mi raccontò che Arena era adirato con lui perché lo accusava di aver incendiato il pub Tribeca, mentre Arena stava spingendo per ottenere il riconoscimento di uno sconto pari al 50% del prezzo delle consumazioni in favore di tutti i sodali a titolo estorsivo».

Il pentito aggiunge che suo nipote gli riferì «di aver negato in quel momento il proprio coinvolgimento ad Arena e non so se successivamente in altro contesto abbia ammesso con il suo interlocutore il suo coinvolgimento nell’incendio come fece subito con me, ma mi confidò che aveva effettivamente eseguito tale azione su mandato di Salvatore Morelli, poiché quest’ultimo non si accontentava della modalità estorsiva proposta da Arena, ma pretendeva dal titolare del pub il pagamento alla cosca di una somma di denaro, sempre a titolo estorsivo».

Michele Camillò ritiene tuttavia che col nipote «abbia partecipato all’azione delittuosa anche Luigi Federici, che accompagna sempre Domenico ogni qualvolta c’era da commettere un atto intimidatorio o un danneggiamento, così come Giuseppe Suriano, il quale era completamente a disposizione di mio nipote ed eseguiva ogni suo ordine. Circa l’estorsione al Tribeca in questo momento non ricordo se la questione fu affrontata nel corso di una riunione cui fossero presenti più esponenti della ‘ndrina».

L’ACCOLTELLAMENTO DI PALMISANO

Quanto all’accoltellamento di Loris Palmisano, il collaboratore di giustizia ha riferito di aver appreso l’episodio da suo fratello Giuseppe che «mi ha raccontato come Antonio Pardea avesse comunicato a Bartolomeo Arena che Palmisano si trovava sopra casa sua perché era andato ubriaco a trovare una ragazza, programmando “di fargli il servizio”.

Arena contattava mio fratello, il quale prendeva accordi con gli altri due e si recava sotto l’abitazione attendendo il giovane. Quest’ultimo usciva in stato di alterazione, alcolica o da sostanze stupefacenti, i tre lo bloccavano e Antonio Padrea lo accoltellava. Successivamente i tre assalitori provvedevano a cancellare tutte le tracce prima dell’arrivo dei Carabinieri, e di questo si vantavano sia Arena che Pardea sopratutto».

Camillò aggiunge che «Antonio Macrì e Domenico Catania, nipoti di Totò Macrì, si stavano recando a sparare a Palmisano, prima che quest’ultimo venisse accoltellato, ma nella circostanza hanno lanciato la pistola sotto una macchina notando transitare la polizia. Nella circostanza Arena si lamentò dell’accaduto in quanto la pistola era la sua ed era stata rinvenuta dalla polizia».

ANCHE CANNATÀ PARLA DEL TENTATO OMICIDIO

Anche Gaetano Cannatà ha reso dichiarazioni sull’episodio evidenziando come di averne appreso la circostanza in carcere da Camillò: «Ricordo che Giuseppe Camillò riferì a Luciano Macrì che il figlio del primo – se non sbaglio a nome Domenico – aveva litigato con questo Palmisano per questioni inerenti ad una ragazza, mi sembra che il primo avesse insultato la ragazza di quest’ultimo; lite che era culminata in una sparatoria ed in tale circostanza era rimasto ferito anche un ragazzo che si trovava presente in quel momento, tale Mirko Lagrotteria. In epoca successiva, mentre a detta di Giuseppe erano in corso tentativi di chiarimento tra il loro gruppo e la vittima, che però era irreperibile, qualcuno ha dato avviso della presenza di quest’ultima in un determinato luogo, ragion per la quale Giuseppe Camillò, Antonio Pardea e Bartolomeo Arena si sono recati in quel luogo. Qui, secondo il racconto di Camillò, Palmisano fu trovato da solo, quantomeno il Camillò non ha fatto riferimento alla presenza di altre persone, e veniva da loro accoltellato».

Secondo Cannatà, il suo interlocutore non avrebbe tuttavia fornito ulteriori dettagli su chi materialmente ha sferrato le coltellate ma manteneva «l’atteggiamento di chi aveva partecipato a quell’azione per vendicare quanto subito precedentemente dal proprio figlio. Ricordo però che mio precisò, nel corso della ricostruzione di quella vicenda, che nell’occasione avevano lasciato Palmisano a terra moribondo, ritenendo che quest’ultimo non sarebbe riuscito nemmeno a raggiungere l’ospedale ancora in vita. Io ho udito tale discorso in quanto presente ma non sono mai intervenuto nella discussione. Essenzialmente Camillò riferiva a Luciano Macrì l’accaduto su richiesta di quest’ultimo che, essendo detenuto da più tempo, chiedeva aggiornamenti al sodale su quanto nel frattempo avvenuto a Vibo».

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