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CATANZARO – Sono tre i filoni di inchiesta che sono sfociati nei 24 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Mancuso di Limbadi. Tutti confluiti in un unico provvedimento che ha svelato gli interessi criminali con ramificazioni in tutte le province calabresi e fino a Trieste. Nello specifico, la squadra Mobile di Catanzaro, guidata da Rodolfo Ruperti, ha chiuso il cerchio intorno a dieci persone , tra le quali gli esponenti di spicco del clan: Giovanni Mancuso, 72 anni, figura carismatica, e Antonio Mancuso, 75 anni.

Sarebbero stati loro a guidare i prestiti usurai che costituivano il reinvestimento di capitali riconducibili alla cosca. In alcune circostanze per la restituzione degli interessi si mettevano in atto anche gravi ritorsioni fino al caso in cui una delle vittime è stata sequestrata e minacciata con l’uso delle armi. I tassi usurai applicati dagli esponenti della cosca avrebbero raggiunto, in alcune circostanze, anche il 200 per cento. 

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Nel provvedimento della guardia di finanza di Vibo Valentia e Trieste, invece, sono stati sequestrati beni per 35 milioni di euro con il fermo di dieci persone e, complessivamente, la denuncia di 76 soggetti, per un’inchiesta coordinata dai pm antimafia Simona Rossi e Marisa Manzini. Dopo alcuni approfondimenti bancari avviati in Friuli Venezia Giulia è stato possibile ricondurre l’attività agli esponenti calabresi della cosca Mancuso, fino a ricostruire gli interessi criminali con estorsioni, usura e danneggiamenti.

Tutto questo con il clan che era riuscito a controllare il settore economico della distribuzione e commercializzazione all’ingrosso di generi alimentari e nel settore turistico immobiliare. Fra i principali responsabili di questa parte dell’operazione, la guardia di finanza ha individuato Agostino Papaianni che si occupava di occultare le risorse economiche avvalendosi, secondo le accuse, di diversi prestanomi a cui erano stati intestati beni immobili e mobili.

Tra i beni sequestrati figurano due società; un distributore di carburante con autolavaggio e bar; un supermercato; una concessionaria di autovetture; un bar nella piazza di Tropea; un panificio industriale e numerosi conti correnti bancari. A questo si aggiunge un villaggio turistico, formalmente intestato ad un prestanome di origine nordafricana, composto da decine di appartamenti, piscina, market, due ristoranti, area camper e stabilimento balneare.

 Infine, il terzo filone dell’inchiesta, seguito dai carabinieri del Ros, che ha permesso di fermare Pantaleone Mancuso, ritenuto il capo della cosca, e il figlio Giuseppe Mancuso, 35 anni. Secondo i militari dell’Arma, i due avrebbero messo in piedi un qualificato circuito criminale nelle province di Vibo Valentia, Reggio Calabria e Crotone, con ramificazioni nel nord Italia. Il figlio Giuseppe avrebbe assunto la reggenza del clan durante la detenzione del padre, con i carabinieri che sono riusciti a ricostruire anche modalità alternative alla fittizia intestazione di beni, attraverso le quali il sodalizio avrebbe acquisito la gestione e il controllo di attività imprenditoriali.

LA DDA. «Nessuno è al di sopra della legge e nessuno, in tutto il territorio calabrese, è al riparo dall’azione della giustizia». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro, con delega all’antimafia, Giuseppe Borrelli., in riferimento al l’indagine che ha consentito di portare a termine un’operazione contro il clan Mancuso di Limbadi (VV), con l’esecuzione di un provvedimento di fermo emesso nei confronti di 24 presunti esponenti del clan. 

«L’impegno della Dda di Catanzaro è massimo rispetto a tutto il territorio di competenza – ha rimarcato Borrelli -, e gli ottimi risultati raggiunti uno dopo l’altro lo testimoniano con i fatti. È importante che questo si comprenda a fondo, perchè tutti sappiano che la giustizia non fa sconti a nessuno. È una garanzia per i cittadini, tutti, in ogni angolo della regione».
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