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La conferenza stampa degli inquirenti con al centro il procuratore Gratteri

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VIBO VALENTIA – Quanto valeva la vita di Matteo Vinci? Settemila miseri euro, secondo la ricostruzione del comandante provinciale dei Carabinieri di Vibo Valentia Bruno Capece. Una cifra irrisoria per porre fine all’esistenza di un essere umano ma sufficiente per estinguere un debito contratto con una delle più temute famiglie di ’ndrangheta del panorama criminale nazionale (e non). Settemila euro che il clan Mancuso avrebbe avanzato ne confronti di Filippo De Marco e Antonio Criniti, i due indagati accusati di essere gli esecutori materiali dell’autobomba che il 9 aprile del 2018 dilaniò il corpo di Matteo Vinci riducendo in fin di vita il padre Francesco.

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Era l’autobomba di Limbadi il cui fragore si udì a decine di chilometri di distanza trasformando quella tranquilla contrada in un luogo simile alla Beirut degli anni ’80. I presunti mandanti sono stati già individuati due mesi dopo l’omicidio; mancava solo chi avesse materialmente posizionato l’ordigno radiocomandato sotto l’auto del biologo 43enne che adesso è stato fermato.

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“Demetra 2” è il nome in codice dell’operazione condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo insieme ai colleghi della Sezione “Crimini violenti” di Roma, sotto il coordinamento della Dda di Catanzaro e ne rappresenta il secondo step dopo quello del giugno 2018 che portò all’arresto dei componenti della famiglia Di Grillo-Mancuso accusati di essere, come detto, gli ideatori del delitto.

Ma l’inchiesta era, ovviamente, proseguita sfociando questa mattina nell’emissione di altre sette misure cautelari emesse dal Gip di Catanzaro, su conforme richiesta della Procura antimafia diretta dal Nicola Gratteri, a carico di altrettante persone, gravemente indiziate, a vario titolo, oltre che dei reati di omicidio e tentato omicidio, anche di danneggiamento, porto di esplosivi, tentata estorsione e traffico di sostanze stupefacenti. E se l’efferato crimine era maturato in un più ampio disegno estorsivo, posto in essere dai Mancuso, finalizzato all’illecita acquisizione di terreni, alla quale si sarebbe opposta la famiglia Vinci, la mano dei presunti esecutori sarebbe, invece, stata armata dalla necessità di saldare un debito contratto nei traffici di droga. Quei settemila euro, appunto, di cui si faceva riferimento in precedenza.

Oltre a De Marco e Criniti, i destinatari del provvedimento cautelare in carcere sono Vito Barbara (genero di Di Grillo, già arrestato nella prima operazione), Pantaleone Mancuso, 57 anni, di Caroni di Limbadi, Domenico Bertucci, 27 anni, di Serra San Bruno; ai domiciliari finiscono invece Giuseppe Consiglio, 34 anni, di Rosarno e Salvatore Paladino, 60 anni, di Rosarno.

Le indagini hanno consentito inoltre di far emergere un’attività di droga che avrebbe visto Barbara quale promotore, e De Marco e Criniti quali soggetti interessati. Ed è stato proprio questo rapporto stretto che i tre avrebbero avuto a portare – secondo l’impostazione della Procura – a quello scambio di favori costato la vita a Matteo Vinci. Uno scambio criminale, macchiato col sangue di una povera vittima, figlio di una famiglia perbene, come avrà modo di riferire in conferenza stampa stamani ai Carabinieri il procuratore Nicola Gratteri: una famiglia che solo contando sul suo fondo agricolo aveva consentito a Matteo di poter svolgere gli studi fino a laurearsi in biologia marina. Un fondo che era finito nei radar dei Mancuso, «specializzati nel riuscire ad estorcere terreni».

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