X
<
>

Condividi:
3 minuti per la lettura

VIBO – Non bastasse il contagio da Coronavirus, ora nel Vibonese ci si mette anche l’incubo dell’antrace: tre persone sono attualmente ricoverate (una in condizioni definite abbastanza serie) nel reparto di malattie infettive dello Jazzolino. La notizia risale a tre giorni addietro ma è stata finora mantenuta “coperta” dai vertici dell’Asp, verosimilmente per non suscitare allarme nella popolazione.

L’infezione sarebbe avvenuta circa 10 giorni fa ma si è manifestata successivamente, dopo una settimana d’incubazione. Essere contagiati sono stati il titolare di un allevamento della zona di Spilinga e di due addetti di un macello privato di Mileto che hanno “lavorato” la carne di un animale infetto. Il macello è stato sanificato (e non come inizialmente ritenuto, sequestrato- LEGGI) e l’allevamento è stato naturalmente posto subito sotto sequestro dal personale del servizio veterinario dell’Asp. Secondo gli addetti ai lavori il contagio da antrace, volgarmente chiamato carbonchio, non va assolutamente sottovalutato perché, in determinate condizioni, la sua evoluzione potrebbe portare a conseguenze molto serie, perfino letali. Vediamo intanto di cosa si tratta.

Quella da antrace, si legge sul sito dell’Istituto superiore di sanità, è un’infezione acuta causata dal batterio“Bacillus anthracis”, un germe produttore di spore che possono sopravvivere a lungo nell’ambiente e che si manifesta comunemente in animali erbivori selvatici e domestici, fra cui i gatti, le pecore, le antilopi, le capre, i cammelli. Colpisce anche gli uomini con forme più lievi che interessano la cute e forme settiche più gravi (ma più rare) legate all’inalazione delle spore che possono anche condurre al decesso. La si può definire una malattia professionale, visto che i più esposti sono allevatori e macellatori che poi la possono trasmettere ad altri.

La via di contagio più comune è quella che deriva dal contatto con animali infetti, soprattutto durante la lavorazione di derivati animali come carni, pelo, pelle, lana e ossa. Conseguenze più serie porta il contagio per via gastrointestinale, derivante cioè dal consumo di carni infette. Il contagio più pericoloso e quasi sempre letale è comunque quello per inalazione, l’antrace infatti è stato usato ripetutamente in alcune parti del mondo nella cosiddetta “guerra batteriologica”. L’infezione si manifesta in vari modi: una sindrome analoga ad un comune raffreddore, con problemi di tipo respiratorio, piccole ulcere, nausea, perdita di appetito, vomito, febbre e diarrea.Ai primi sintomi, tra cui febbre molto alta e varie eruzioni cutanee, gli interessati sono stati visitati da un infettivologo che ne ha subito disposto il ricovero.

La tempestività con cui si è intervenuti potrebbe rivelarsi vincente, questo naturalmente si spera, tale da evitare conseguenze serie ai tre pazienti. A quanto si è potuto apprendere (come detto, infatti, non ci sono notizie ufficiali) due dei tre sono in condizioni meno preoccupanti del terzo. Considerata la gravità del caso, i degenti vengono attentamente monitorati h.24, i campioni prelevati sono stati inviati per le opportune analisi presso l’Istituto zooprofilattico di riferimento che, in casi come questi, è quello di Foggia. Attorno a loro, vista la serietà del caso, è stato steso uno stretto cordone sanitario per impedire altri contagi. Se, come si spera, il decorso dell’infezione sarà benigno, potrebbero essere dimessi nel giro di un paio di settimane.Domanda: come può essersi verificato il contagio, considerato che gli animali dei vari allevamenti sono costantemente controllati dal personale del servizio veterinario dell’Asp?

Ai macelli, e poi sulle nostre tavole, dovrebbero arrivare, dunque, animali sani, sotto tutti i punti di vista. La risposta dell’esperto: «Le spore del “Bacillus anthracys” si trovano nel pelo degli animali. Stanno lì, dormienti in pratica, ma quando trovano determinate condizioni a loro favorevoli si “svegliano” e cominciano ad esplicare la loro nefasta azione. Ed è quello che, evidentemente, è accaduto in questo caso». Secondo l’Istituto superiore di sanità, a differenza di altre zone geografiche del pianeta in cui la malattia è stata quasi del tutto debellata tra gli animali, in Italia fino a tempi recenti si sono verificati casi di carbonchio animale e occasionalmente viene registrato anche qualche caso nell’uomo. In Calabria, comunque, pare non si registrassero casi da vari decenni.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE