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E’ stato di recente sottoscritto da Confindustria il protocollo con i Ministri del Lavoro, della Salute, dello Sviluppo economico e con il Commissario Straordinario all’emergenza Covid, e che è in attesa dell’approvazione da parte della Conferenza Stato Regioni delle indicazioni specifiche per la vaccinazione nei luoghi di lavoro. Confindustria Avellino alcuni giorni fa ha trasmesso all’Asl di Avellino un primo elenco delle aziende che hanno aderito alla campagna vaccinale di Confindustria e che si sono organizzate per somministrare i vaccini ai propri dipendenti, nonché ai dipendenti delle imprese che operano in regime di appalto e/o localizzate nelle stessa area industriale. Per ora ci si aggira su un numero di oltre 5000 dipendenti e circa 100 aziende coinvolte. L’elenco va avanti, a seconda delle nuove disponibilità da parte delle aziende.

L’intervista a Piero Mastroberardino Presidente del gruppo di attività agricole e agrituristiche.

Vaccini in azienda: professore, quando si partirà?
«Per quanto ci riguarda stiamo raccogliendo le liste delle persone interessate tra i nostri collaboratori, per predisporre tutta la documentazione formale che inoltreremo all’Asl. Rinnoviamo così la disponibilità ad organizzare nei tempi più stretti i vaccini in azienda, compatibilmente con le loro scorte di dosi, per dare un contributo il più ampio possibile».


Ma non è così facile, a quanto pare.
«Penso che questa impasse della parte pubblica si debba superare anche con il supporto del privato, con una maggiore collaborazione: più aziende danno una mano più si accelera. In questo momento vedo una difficoltà che non si riesce a sbloccare, continuiamo a ragionare di numeri e di vaccini che dovrebbero arrivare domani o dopodomani o la settimana prossima ma il tasso di vaccinazione giornaliero resta assolutamente insufficiente. Per evitare che si producano ulteriori danni dal punto di vista sociale ed economico, bisogna fare uno sforzo il più possibile ampio, e concentrato tra gli operatori, a dare una mano».


Che cosa manca?
«L’ho sostenuto più volte anche pubblicamente: dateci il protocollo, e quando sarete pronti voi, noi vorremmo essere più che pronti, perché non ci sia un altro ritardo temporale. Vorremmo predisporlo prima, questo servizio, come ogni manager è abituato a fare».


Asl e Regione gli interlocutori?
«Sì, per le loro specifiche competenze, indirizziamo ad Asl e Regione le disponibilità che mettiamo in campo, in modo da tenere informati entrambi gli enti, e l’invito a darci gli strumenti».


Individuati i locali aziendali?
«Certo, ma per poterli attrezzare abbiamo bisogno del protocollo, ci devono dire come procedere. Abbiamo allertato il nostro medico aziendale, però dobbiamo capire se il personale infermieristico deve essere distaccato dall’Asl oppure sono infermieri da poter reperire fuori dal loro circuito. Sono tutti aspetti che ci devono dire, sono tante le implicazioni. E’ ovvio che i vaccini non possono sfuggire al controllo della parte pubblica, per cui bisogna avere una contabilità accurata di tutto il processo».


Se aveste ora il protocollo…
«Se mi arriva oggi, in 48 ore sono pronto».


Sul piano economico, la sua azienda avverte la crisi?
«C’è una fortissima sofferenza nel settore della ristorazione, la nostra clientela principale. Come azienda tutto sommato stiamo soffrendo meno, perché abbiamo una serie di alternative, contiamo sui mercati internazionali, c’è il canale da asporto alternativo a quello della ristorazione, quindi aziende come la nostra alla fine vanno avanti, si sono attrezzate per rispondere a questa emergenza. Se mi avessero disposto la chiusura, a me che sono un’azienda agricola, sarei nella stessa situazione del ristoratore».


Il problema resta per le piccole imprese.
«Sì, il dramma non è per noi, è per le famiglie di piccoli imprenditori, esercenti di attività da sempre motivo di orgoglio per tutti. Basti guardare in televisione come si celebra la figura dello chef, per capire quanto sia importante il ruolo della ristorazione nella cultura del nostro paese, ma che in questo momento è a fortissimo rischio. Tante strutture di ristorazione stanno alzando bandiera bianca, questa situazione dura da troppi mesi. E non stiamo parlando di aziende dalle spalle larghe, ma di piccole imprese a conduzione familiare, di tipo artigianale, che non hanno una logica pianificatoria della gestione da grande corporation».


Cosa vede in prospettiva?
«Penso che l’inizio del mese di maggio debba essere assolutamente un punto di svolta per ridare ossigeno nella speranza che questi operatori ci siano anche domani, e che non perdiamo il contributo culturale di tante aziende».


Non solo economia, lei dice.
«No. Troppo spesso si sta sottovalutando questo aspetto, nel dire “muore un’azienda e se ne fa un’altra”. E’ di un cinismo davvero disarmante, perché ogni azienda ha una sua storia, unica, irreplicabile, che è il portato delle esperienze personali di chi ci ha lavorato, e ha costruito il business nel corso degli anni. Per chi come me ama l’azienda come istituzione, come soggetto creatore di valore e distributore di ricchezza e di benessere nella società, è una sofferenza prima di tutto psicologica».


La soluzione, secondo lei?
«Ho tanti amici ristoratori in giro per il mondo. A New York in questo momento sono ripartiti tutti, ma nella fase di chiusura avevano la possibilità di servire i cibi nelle zone all’aperto. Ora, per quale logica malsana il ristoratore in Italia non può servire il cibo fuori, quando sono garantiti gli spazi aperti, il distanziamento, il ricambio di aria? Ci sono le soluzioni per non far morire queste aziende. Perché non si mette mano a tutto questo? Stiamo entrando in primavera, consentiamo a queste persone, con funghi da riscaldamento fuori dai locali, tavoli all’esterno, diamo loro la sensazione che la loro azienda sta ripartendo, è un segnale di fiducia».


In parte il suo ragionamento si incrocia col pensiero di De Luca.
«Il ragionamento del presidente De Luca sottolinea un fatto, ovvero la diversità dei contesti regionali, e che non possiamo considerare ogni regione in una prospettiva totalmente centralista. Ora, se la Campania ha una serie di driver dell’ economia che richiedono interventi un po’ diversi, salvaguardando, come ha precisato, le categorie più a rischio, se c’è la possibilità di creare una griglia, una struttura matrice del piano di vaccinazione che preveda da un lato la popolazione tout court sulla base delle fasce di età, e dall’altro le emergenze di carattere economico, secondo me è una cosa che può avere un senso».


Ma la proposta non è passata.
«Credo che la preoccupazione del governo centrale è che si possa sfuggire al controllo del piano di vaccinazione. Non dimentichiamo che le regioni purtroppo non hanno dato prova di grande affidabilità nella gestione del dato statistico, in tutti questi mesi.
Sappiamo che sono finite nell’occhio del ciclone perché alcune avrebbero fatto false dichiarazioni, altre hanno contato malati e decessi in maniera discutibile, altre ancora avrebbero posto in essere iniziative criticabili o censurabili proprio nella fase di attuazione del piano di vaccino con la famosa categoria “altro”.
Tutto questo pone sull’avviso il governo centrale che dice: ma io non mi posso fidare delle strutture regionali. Però stiamo parlando di istituzioni, cioè se le istituzioni tra di loro non si considerano affidabili, il cittadino che deve pensare? Quando poi, lo stesso cittadino è stato sballottato tra un vaccino che andava bene fino a 55 anni, poi è diventato buono solo per gli over 60. Le porto il mio esempio: in quanto docente universitario, ho fatto la prima dose di AstraZeneca. Sono over 50, a fine maggio mi somministreranno la seconda dose. Solo da poco AstraZeneca è autorizzato dopo i 60.
In questo mese, calcoli alla mano, dovrei fare di tutto per compiere 60 anni…».


Acrobazie da Covid, a quanto pare.
«Proprio così…».

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