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Io c’ero in quei giorni della paura, delle lacrime e della rabbia. C’ero in quella che chiamai la “malanotte” del 23 novembre 1980, trentanove anni fa. C’ero a scavare a mani nude sotto le macerie che la terra aveva inghiottito spezzando vite di bambini, donne e uomini. Ci sono stato in questi anni con la narrazione dei paesaggi che cambiavano tra speranze e delusioni. Anche riflettendo sulle non poche nefandezze che sono state scritte in questi lunghi anni che hanno rappresentato uno spartiacque tra il prima e il dopo il tremare della terra. Come dimenticare i volti imbiancati dalla polvere di persone calate nelle fosse comuni, quando ancora mancavano le bare. Ingiustamente la nostra tragedia passerà alla storia come il “terremoto dell’Irpinia”, quando anche le risorse sono state utilizzate in altre realtà, Napoli soprattutto. Vedo tante belle case, villette, stalle moderne e penso che sono oggi vuote per effetto di quello spopolamento che dissangua i nostri paesi con i giovani che vanno via come accade in quasi tutte le zone interne del Mezzogiorno. Ricordo oggi la profezia di Manlio Rossi Doria: se non si agisce creando sviluppo questa Irpinia diventerà un deserto. Oggi si possono fare, alla vigilia del quarantesimo anno nel 2020, bilanci su ciò che è stato o su ciò che poteva essere. Case vuote e sviluppo claudicante sono la faccia di una stessa medaglia che presenta anche non pochi aspetti positivi. Ma oggi bisogna onorare le vittime di quella malanotte. Ricordando il piccolo Diego che dopo lunghi giorni sotto le macerie, con la madre in preda all’angoscia, fece in tempo a vedere la luce per poi subito chiudere gli occhi.

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