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Ha parlato. E’ piaciuto. Ha ottenuto una larga fiducia. Non si è fatto irretire dalle polemiche politiche che ha schivato con garbo e intelligenza. Alcuni ritengono, facendo riferimento al suo aplomb, che sia un uomo all’antica nel senso che recupera i valori del dopoguerra, quando il Paese era avvolto dalle macerie. Di lui si è detto di tutto e di più: uomo della Provvidenza, al posto giusto, il solo in grado di affrontare la difficile situazione. I cantori si sono messi in fila, rinunciando talvolta alla cancellazione della memoria. Accade perché l’Italia, prima del suo incarico, boccheggiava. Era sull’orlo del default politico e morale. Non per responsabilità di Giuseppe Conte, che pure ne ha qualcuna, ma per la pochezza a cui erano giunti i partiti, con i loro litigi, la loro estraneità dimostrata per i bisogni della comunità nazionale.


Mario Draghi, da poco presidente del Consiglio per volontà di Sergio Mattarella, ha accettato la sfida. Ci ha messo la faccia. Ha scelto il linguaggio della verità. Ha messo in campo tutta la sua esperienza e il suo prestigio ridando fiducia e iniettando speranza nelle vene degli italiani esausti. Nei suoi discorsi asciutti e ricchi di contenuti ha affrontato i temi spinosi dell’Italia nella globalizzazione: pandemia, crisi economica, ruolo del Paese in Europa, burocrazia farraginosa, difficoltà di inserimento occupazionale dei giovani, nuove occasioni di sviluppo per la fragilità di alcune zone, e tanti altri argomenti importanti la cui soluzione conduce alla riconquista della speranza. Il mio augurio è che il suo governo duri e raggiunga gli obiettivi della cui realizzazione si è fatto carico, a partire dall’annosa questione meridionale. Su quest’ultima è stato inflessibile dando una narrazione secca dei mali che travolgono il Sud. Con le sue parole ha preso le distanze anche da coloro che discettano di meridionalismo ritenendo che tutto il male che c’è nel Mezzogiorno sia riconducibile alla mancanza di risorse. Draghi, a mio avviso, è andato ben oltre: ha individuato nella diffusa illegalità, nella permeabilità del potere politico verso la corruzione e nel ruolo svolto dalla classe dirigente le cause del mancato sviluppo del Sud.

Ha indicato una strada materiale e immateriale per superare il divario. Certo, occorrono investimenti infrastrutturali, difesa dell’ambiente, meno assistenzialismo. E per essere credibile il Sud (il Paese per il Sud) deve puntare sulla formazione, l’innovazione tecnologica, la ricerca e soprattutto dare vita ad un grande rinnovamento morale con la selezione di una nuova classe dirigente. Questa ultima condizione rappresenta il cuore del problema. In realtà, uno dei motivi per cui il Sud non riesce a compiere passi in avanti è, per buona parte, legato a quel circolo vizioso che lega politica e malaffare. Non a caso quando Draghi fa riferimento al mondo della corruzione e al conseguente spreco delle risorse, denuncia anche il ruolo svolto dalla classe dirigente. Essa è giacobina nei centri di potere, forcaiola nei territori dai quali ottiene il consenso.

Sarà lui, Mario Draghi, a compiere quella rivoluzione meridionale che auspicava Guido Dorso confrontandosi con il torinese Piero Gobetti? E’ una sfida alta che comporta la rottura di quel circolo vizioso che oltre all’inquinamento morale si nutre di clientelismo e trasformismo. Se le parole sono pietre quelle pronunciate dal neo presidente del Consiglio alle Camere dovrebbero condurre ad obiettivi possibili. Non a caso il costante riferimento di Draghi al rispetto della legalità contro il malaffare suona quasi come un avvertimento ai poteri criminali da tempo in pista per mettere le mani sul Recovery fund, ma anche alla classe dirigente meridionale che, come le cifre dimostrano, non è stata in grado di utilizzare al meglio i fondi europei erogati con i relativi piani di investimento. Sarà il governo Draghi a segnare l’attesa svolta? I fatti, solo i fatti, lo diranno.

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