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La polemica astiosa tra il governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca, e il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a proposito del finanziamento per tre milioni di euro della manifestazione “Luci di Artista” nel capoluogo salernitano, richiede, al di là del fatto in sé, una riflessione sul ruolo della Regione a distanza di trentasei anni dalla sua nascita. Un primo dato che si coglie è quello della mancanza della visione unitaria del territorio regionale. Vi aveva provato, nella sua prima legislatura, Cascetta senior, stimolando la
discussione sulla necessità di un Piano di assetto territoriale. Riguardava una serie di opzioni utili per disegnare armonicamente il territorio, secondo vocazioni e prospettive di sviluppo. Quel Ptr (piano territoriale regionale) e le sue articolazioni successive, pur approvate, sono state di fatto completamente disattese e sono miseramente fallite. In loro sostituzione ora vige il principio della provenienza territoriale dei singoli assessori regionali. Altrove, in quasi tutte le regioni, i Piani di assetto territoriale hanno consentito una visione equilibrata del territorio, tanto che più volte si è fatto ricorso al loro aggiornamento. In Campania la logica è
stata diversa, nel solco degli antichi vizi del Mezzogiorno. L’egoismo campanilistico, il clientelismo sfrenato hanno finito per tarpare le ali allo sviluppo. Seguendo questa logica, Napoli ha fatto la parte del leone. La Regione è stata vissuta come il supermunicipio
della metropoli campana, assediata da quei problemi del sottosviluppo che rappresentano l’altra faccia della cartolina oleografica che contraddistingue quel vasto territorio. Cortei dei disoccupati organizzati, degli ex detenuti, dei senza salario, hanno costretto il governo regionale ad inseguire le tante emergenze. Non v’è giorno che sull’arenile di Santa Lucia, sede della giunta regionale, non
si registri un movimento di protesta. Così si è vanificato anche il valore di chi aveva immaginato che il ruolo della Regione dovesse essere di programmazione e non di distributrice delle risorse senza un disegno per il futuro. Ciò è stato possibile anche perché la rappresentanza politica regionale non ha mai fatto riferimento ai reali bisogni territoriali, ma solo al numero degli eletti di una determinata provincia. E, dunque, l’appartenenza napoletana ha dominato sulle ragioni di una coesione del territorio regionale. La stessa divisione tra zone interne e fascia costiera, battaglia con antiche radici, si è rivelata perdente per le comunità più deboli che hanno vissuto quasi sempre di mance. Tuttavia da un po’ di tempo, da quando Vincenzo de Luca è stato eletto alla guida del governo regionale,
qualcosa è cambiato. Il napolicentrismo, da sempre denunciato come uno dei mali della politica regionale, ha ceduto, in parte, il passo al salernocentrismoo. Spostamenti di risorse, nomine nei punti cardine della politica regionale, attenzione per i porti, finanziamenti per strutture civili e sociali sono quasi sempre all’ordine del giorno del governo De Luca, versione salernitano. Ed è così che la competizione è diventata motivo di scontro tra Napoli e Salerno. In questa chiave di lettura si capisce allora perché esponenti della politica napoletana avvertono un certo disagio verso il nuovo potere dominante. Se le zone interne possono attribuirsi un ruolo è solo
perché il valore dei politici locali è di buona qualità e di notevole prestigio, quando non fa riferimento solo ad accordi di potere.
In realtà la crisi del regionalismo riflette quella del meridionalismo. Se il Mezzogiorno è fermo al palo è perché la sua classe dirigente non ha mai saputo svolgere un ruolo di protagonismo nella politica del Paese. La rappresentanza meridionale ha vissuto (e
vive) di separatezza. In questa divisione hanno buon gioco logiche come il voto di scambio, l’esasperato campanilismo, la pratica del trasformismo e l’abitudine al clientelismo. Si tratta di una visione miope che non consente alle regioni meridionali, tra cui la Campania, la più popolosa, di alzare il livello della sfida. La Regione che finanzia rotonde per tutti i paesi con i fondi europei, che, incapace di progettare, è costretta a restituire i fondi all’Europa, è il modello meno virtuoso per uscire dall’endemica crisi. La riflessione riporta al ruolo della classe dirigente meridionale e regionale. Mentre la contemporaneità riflette sulla necessità di  trasformare il locale in globale, recuperando per sé solo riti e tradizioni, il Mezzogiorno e la Campania litigano per affermare le loro
identità vissute come difesa del mero possesso. La Campania non è vista come un unicum, ma come sistema di parcellizzazione del potere.
Ed è qui il limite di un ente che non è mai nato ma vive di gestione. La vita della programmazione non è mai cominciata. Purtoppo.

GIANNI FESTA

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