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Di Vincenzo Fiore
Prendono forma le visioni musicali dell’Officina F.lli Seravalle (gruppo formato da Alessandro e Gianpietro), nel nuovo disco Tajs! (Lizard Records). I due artisti friulani raccontano oggi ai microfoni del nostro quotidiano il loro stile psichedelico ed enigmatico, uno stile che inchioda all’ascolto e che combina, nello stesso tempo, i grandi maestri dello scorso secolo e la musica sperimentale contemporanea.
È stato appena pubblicato il vostro nuovo disco “Tajs!”. Cosa significa questa espressione?
Alessandro: Tajs in lingua friulana vuol dire “tagli”. Nel booklet del disco si può leggere un breve excursus sui possibili significati di “taglio”. In primis è taglio quello curatore del chirurgo (il tema della musica, come di qualsiasi altra forma espressiva, come mezzo di autoterapia è per me decisivo), il taglio ha anche a che fare col dare forma a qualcosa (si pensi al tagliatore di pietre preziose), può riferirsi allo “stile” (il caso del sarto è emblematico), denota attenzione e cura (la madre che taglia il cibo al proprio bambino), può inoltre alludere alla cancellazione di qualcosa (in musica sovente eliminare ha valenza pari a quella di aggiungere). La prosaica verità tuttavia è che con la parola taj in Friuli si indica il bicchiere di vino! “Nin a bevi un taj”(“andiamo a bere un bicchiere”, quante idee o progetti nati in questo modo!). Il taj in Friuli è una sorta di istituzione.
Gianpietro: Per quanto mi riguarda è anche una sorta di dedica-ricordo in codice.
Anche nella vostra precedente esperienza musicale (“Us frais cros fris fics secs”) avete utilizzato espressioni prese in prestito dal dialetto friulano. Perché avete deciso di seguire questa direzione?
Alessandro: Officina F.lli Seravalle include, come copertine dei dischi, anche i quadri di nostro padre Giovanni, l’espressione che dà il titolo al nostro primo lavoro era spesso pronunciata da nostra nonna materna. Il friulano è il nostro “lessico famigliare”, diciamo così. Il paesaggio della bassa pianura friulana, con le sue brume, i suoi rigori e la sua metafisica piattezza ha più di qualche influenza in quello che facciamo. Il secondo brano, ad esempio, s’intitola “Ausa” (pare che il primo a citarlo sia stato Plinio il Vecchio col nome di “Alsa”, ossia “sorgente”), il fiume-compagno che mi parla costantemente col suo muto linguaggio (Angelo Molaro lo chiamava «il fiume dei silenzi») abitando io sulla sua riva.
Il quarto brano del disco “Vuoto politico” compie un salto all’indietro agli anni ’90, precisamente all’epoca dello scandalo di Tangentopoli. Avete selezionato e messo in musica due discorsi celebri dell’ultimo Bettino Craxi, fra cui la famosa deposizione ad Antonio Di Pietro. Quale motivazione dietro questa scelta?
Alessandro: Mi pare che quando simili J’accuse arrivano direttamente dalla stanza dei bottoni…la disamina di Craxi è impietosa e tagliente. Al momento non si vede come poter sbrogliare la matassa che ha portato questo paese nella miseria culturale che quotidianamente percepiamo. Craxi ha qui squarciato il velo, ha pronunciato il tabù in Parlamento, in quello che dovrebbe essere il luogo sacro della democrazia, e poi anche in Tribunale. L’idea di proporre questi illuminanti interventi è stata di mio fratello.
Gianpietro: Si può dire che ho tentato una specie di esperimento per dimostrare come ci possano essere diverse interpretazioni della stessa storia e come può cambiare la visione delle cose alla luce di come questa ha indirizzato il futuro. Molto spesso un evento ne causa altri imprevedibili e inaspettati. Prendiamo il caso. L’azione dell’allora pool di “mani pulite” e la conseguente demolizione di quel sistema di partiti, poteva anche avere delle sue ragioni in effetti, però ha altresì avuto riflessi nefasti per la Politica in generale. Indebolita e delegittimata dalla gogna mediatica è stata sempre più incapace di far fronte all’avanzare del capitalismo globale e credo sia innegabile che la forbice tra chi ha tutto e chi niente si sia allargata ulteriormente dall’epoca a oggi… Il “vuoto politico” dunque come resa allo strapotere dei mercati e alla continua contrazione dei diritti dei lavoratori. Al di là di Craxi, personaggio controverso ma comunque di un livello culturale altro rispetto ad un “Diba” o un “Dima”  qualsiasi, che è stato preso in prestito in questa occasione soprattutto per l’ottima dialettica e per la precisione di stare sul “beat” del brano.
La traccia numero sette si intitola “Bewusstsein als Verhängnis”, che possiamo tradurre in italiano: La coscienza come fatalità. È giusto affermare che la vostra musica racconta l’inquietudine, la sofferenza e la malinconia che avvolge e che inchioda l’essere umano?
Alessandro: Cogli un punto decisivo. La nostra musica tende da un lato a catturare lo Zeitgeist (quello dei danni da turbocapitalismo di marca neoliberista, per intenderci, ma non solo) e il genius loci (il Friuli, avamposto di quel famoso nord-est che di miracoloso ha ben poco, ma al quale qualcosa di arcano ci lega), dall’altro tenta di entrare in contatto con le questioni decisive dell’essere umano in quanto tale. La “coscienza come fatalità” è il titolo del libro che Emil Cioran non ha mai scritto (il libro è invece di Alfred Seidel, morto suicida nel 1924) ma che sembra riassumere in una semplice formula l’idea che il grande pensatore rumeno aveva appunto di questo “fenomeno capitale”. La voce femminile (in realtà si tratta di un sintetizzatore vocale) sciorina frasi di Cioran come «la coscienza è l’incubo della natura» o ancora «la coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne». L’emergere della coscienza segna un punto di non ritorno nella storia naturale di questo pianeta, ma laddove la psicanalisi freudiana, che beninteso ha avuto il merito di scoperchiare il calderone ribollente dell’inconscio, esorta a conquistare terreni al buio dell’Es per portarli alla luce, verso la coscienza dell’Io («Wo Es war, soll Ich werden», ossia “della psicanalisi in una formula”), Cioran bolla questa emersione come catastrofica, primo passo verso l’affermazione incontrastata della hýbris immanente al fenomeno umano, svolta decisiva in direzione del disastro.
Gianpietro: È una chiave di lettura interessante, di certo il disco non suona come “la canzone del sole”…
Diverse influenze provenienti dalla letteratura e dalla filosofia caratterizzano la vostra musica. In che modo, ad esempio, autori quali Emil Cioran e George Orwell entrano nel vostro disco?
Alessandro: Credo fermamente che la cosiddetta musica extracolta (espressione messa in campo da certa accademia ma in effetti abbastanza priva di significato) debba invece cercare nella cultura, non solo strettamente musicale, stimoli e nutrimento. Per quanto mi riguarda il pensiero di Cioran costituisce uno dei pochi “fari” il cui raggio permette di orientarsi in questa piuttosto oscura navigazione a vista che è il vivere. Francamente non se ne può più del machismo stereotipato di certo rock (ormai diventato quasi totalmente musica del capitale e dell’omologazione), di terrificanti talent show in cui persino la vocalità dei concorrenti è standardizzata o di certe musiche, su tutte la trap, che sono il massimo dell’integrazione al sistema e di diffusione dei valori del consumismo sotto la falsa maschera di una solo apparente trasgressione come splendidamente messo in luce dal musicologo Antonello Cresti: «I trapper sono le avanguardie del pensiero del Capitale assoluto… perché tutto ciò che avviene nei loro moduli comunicativi è esclusivamente un’esaltazione della merce, del marchio, del brand, della riuscita sociale attraverso tutto ciò che si può comprare». Allora rivolgersi ai grandi pensatori o ai grandi musicisti diviene un’operazione di vera e propria resistenza politica.
Gianpietro: Sono decisamente un amante di romanzi e film distopici. Mi pare possano prefigurare il futuro non troppo roseo verso cui stiamo correndo.
Il vostro stile psichedelico e sperimentale a quale genere musicale si avvicina di più?
Alessandro:
È davvero difficile risponderti, senza dubbio l’originalità assoluta non esiste, persino nei più grandi innovatori persiste un’eco del passato (basti pensare ad Arnold Schönberg e al suo amore per Brahms). Di certo le influenze che permeano la nostra musica sono, per così dire, involontarie, inconsapevoli. Mio fratello ha coniato l’espressione “psichedelia 3.0” che mi sembra si avvicini abbastanza all’idea retrostante il nostro sound. Nell’alambicco di Officina F.lli Seravalle trovi un miscuglio in ebollizione di progressive-rock, di ricerca timbrica in cui è probabile l’influsso dei grandi musicisti del secondo Novecento (Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen, Gÿorgy Ligeti…) ma anche degli alfieri della cosiddetta creative music (Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, George Lewis…), ci rintracci pure musica techno, glitch, house, ambient assieme alla tradizione kosmische, precipitati di jazz-rock, coaguli noise… Insomma un brodo piuttosto eterogeneo ma che crediamo di aver informato col nostro stile. La profonda indefinibilità della nostra musica è qualcosa di cui siamo fieri, non è possibile infilarci in una categoria stilistica standardizzata.
Volete lasciare i nostri lettori con un invito all’ascolto?
Alessandro: Se siete alla ricerca di qualcosa di non omologato, di stimolante e di diverso dal piattume propinato dalla grande industria (quella che definisco «Mcdonaldizzazione dell’immaginario») allora forse il nostro lavoro potrebbe fare per voi.

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