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Nonostante l’introduzione di un fondo perequativo che dovrebbe ridurre storture e diseguaglianze nella ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), il 42,3% delle risorse destinate dallo Stato alle Università italiane finisce nelle casse degli Atenei del Nord, al Sud va il 21,4%, sommando anche Sicilia e Sardegna si tocca il 32,4%, mentre il restante 25,3% finisce al Centro.

E’ quanto emerge dall’ultimo rapporto biennale disponibile dell’Anvur sullo stato del sistema universitario e della ricerca. Così, accade ancora che l’Ateneo di Bari nel 2019 riceva 188 milioni, Palermo 199 milioni, Bologna 412 milioni, Padova 318 milioni, Torino 294 milioni, Firenze 245 milioni, l’Università della Calabria 101 milioni.

IL FONDO

Il Fondo di finanziamento ordinario è un finanziamento statale e costituisce la principale fonte di entrata per le università italiane. È ripartito annualmente tra una quota base, una quota premiale e tra una serie di misure specifiche dettate da apposite disposizioni normative.
Istituito con la legge 24 dicembre 1993, il Fondo si componeva inizialmente di una quota base e una di riequilibrio. Al fine di promuovere l’incremento qualitativo delle attività delle università e di migliorare l’efficacia e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, il decreto legge 10 novembre 2008, numero 180, ha introdotto anche una quota di finanziamento, inizialmente non inferiore al 7 per cento e con la previsione di incrementi negli anni successivi, che viene ripartita su base premiale.

Nell’ambito della quota base, la legge 30 dicembre 2010, numero 240, ha rimodulato il costo standard unitario di formazione per studente in corso (costo standard), come il costo attribuito al singolo studente iscritto entro la durata normale del corso di studio. La componente legata al costo standard dovrebbe a regime rappresentare la totalità della quota base.

QUOTA PREMIALE

Nel 2013 la quota premiale è stata incrementata. Rispetto al 2015, nel 2017 la quota assegnata al Nord è rimasta sostanzialmente stabile, mentre è lievemente diminuita quella del Centro ed è aumentata quella del Mezzogiorno (di 0,5 punti percentuali), soprattutto per l’aumento della componente premiale: a dimostrazione che gli Atenei del Mezzogiorno hanno una qualità dei corsi e della ricerca che non è assolutamente seconda a nessuno.

VIETATO ASSUMERE

Nell’Università puoi assumere solamente se sei già “ricco”. Uno studio della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, analizza il decreto che l’8 agosto del 2019 ha dato le risorse alle singole accademie soffermandosi sull’allegato “punti organico”.

Cosa sono i punti organico? In poche parole, la possibilità di fare turnover e assumere professori sulla base dei bilanci degli Atenei. La tabella del Miur indica – per segnalare i poli estremi – da una parte due atenei come Cassino e Catania, che nel 2019 hanno ottenuto “zero” punti organico aggiuntivi e, dall’altra, l’Università di Bologna, a quota 75,69 “po aggiuntivi” e il Politecnico di Milano, a 69,54.

Cassino e Catania, tradotto, possono assumere un nuovo professore ordinario ogni due che vanno in pensione (si sono guadagnati un “regime assunzionale” al 50 per cento), la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa quasi dieci docenti per ogni pensionato, la Sissa di Trieste sette, il Politecnico di Milano cinque, così come l’Università di Bergamo.

Quindi, più un Ateneo è povero meno possibilità di assunzione ha. Indovinate chi danneggia questo criterio? Ovviamente le Università del Mezzogiorno, sfavorite nella ripartizione del Fondo. Non poter assumere, significa non rinnovarsi, non poter ampliare la propria offerta didattica e formativa.

I PIÙ PENALIZZATI

Al di là di questi casi limite, si nota come siano al di sotto del 100 per cento (un professore va in pensione e uno entra) perlopiù università del Centro-Sud: il Salento ha il turnover al 64 per cento, Messina al 65 per cento, Palermo e la Seconda Università di Napoli al 71 per cento, Perugia al 72, il Molise e Roma Tor Vergata al 73, la Calabria al 75, la Tuscia e la Basilicata al 76 e Macerata all’81.

In questa graduatoria penalizzante rientrano solo due università del Centro-Nord, entrambe con problemi specifici: Siena, terzultima con il 58 per cento di ricambio possibile in cattedra, si trascina la crisi del Montepaschi, mentre un ateneo come Genova (75 per cento) paga un prezzo alto all’ormai profonda crisi di natalità della città.

In tutto il Meridione si contano 60 punti in meno rispetto alle cessazioni, significa 120 professori perduti e non sostituiti ogni anno. Solo in Sicilia si arriva a meno 72 professori.

Al Nord, dice ancora lo studio, il Veneto registra 30 punti in positivo, il Piemonte è a più 60, la Lombardia a più 168. Si arriva a più 250 punti per tutto il Nord con Politecnico e Statale di Milano che da soli fanno più 100.

I MECCANISMI

In sostanza, le università meridionali quando un docente va in pensione non possono permettersi di sostituirlo. Mentre al Nord sono in grado di assumerne tre per ogni docente che cessa il servizio. Fu il governo Monti a stabilire che i pensionamenti avvenuti in un ateneo A possono essere rimpiazzati da assunzioni in un ateneo B, se B ha un bilancio più solido dell’ateneo A. Ed ecco che la città Milano con i suoi atenei incamera ben 84 Punti Organico (l’equivalente di 168 ricercatori) in aggiunta al rimpiazzo dei propri pensionamenti. Un organico sottratto agli atenei del Centro-Sud, in particolare Napoli Federico II, Palermo e Roma Sapienza. Eppure la Federico II non ha nulla da invidiare agli atenei del Nord: è virtuosa in diversi indicatori, quello sulla spesa personale, sull’Isef, sull’indicatore di sostenibilità economica-finanziaria.

Perché Napoli viene penalizzata rispetto, ad esempio, A Udine che ha indicatori virtuosi ma peggiori? Perché le tasse universitarie a Napoli sono più basse rispetto a quelle di Udine: infatti, tra i criteri adottati, il Miur riconosce un “premio” a chi fa pagare tasse più alte ai propri studenti.

L’IMMIGRAZIONE

Le scarse possibilità di rinnovare il parco docenti, i corsi di laurea, l’offerta generale da parte di quasi tutti gli atenei del Sud, figlia com’è dei conti sofferenti degli stessi, mina la possibilità di recuperare immatricolati e iscritti e alla fine spinge nuovi studenti nel Nord Italia.
I meridionali iscritti all’Università sono complessivamente 685 mila circa, di questi il 25,6%, pari a 175 mila unità, studia in un Ateneo del Centro-Nord. La quota, invece, di giovani residenti nelle regioni del Centro-Nord che frequenta un’Università del Mezzogiorno è appena dell’1,9%, pari a 18 mila studenti. Ne deriva, quindi, un saldo migratorio netto universitario pari a circa 157.000 unità. Svimez sottolinea come il saldo migratorio universitario dal Meridione al Settentrione sia in costante aumento e come questo pesi sul piano economico e, quindi, sociale. Questo esodo costa al Mezzogiorno tre miliardi di euro l’anno, questo il calcolo di Svimez.

SPESA IN FLESSIONE

Scorrendo i dati della ricerca annuale della Svimez, risulta che in Italia la spesa per l’istruzione si è ridotta, con una flessione del 15% a livello nazionale. Di cui il 19% nel Mezzogiorno e il 13% nel Centro-Nord. Nel Mezzogiorno solo poco più di 3 diplomati e 4 laureati su 10 sono occupati da uno a tre anni dopo aver conseguito il titolo. Prosegue l’abbandono scolastico, nel 2018 gli early leavers meridionali erano il 18,8% a fronte dell’11,7% delle regioni del Centro-Nord. Per di più al Sud il 56% delle scuole ha bisogno di manutenzione urgente.


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