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Agnès Varda nel suo studio

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Agnès Varda si fece strada coraggiosamente in un universo di uomini nel 1955, con un film che il critico André Bazin definì “miracoloso”, per quanto fosse lontano dal cinema francese contemporaneo, fissato su rigidi schemi filmici e narrativi.

Si tratta di La Pointe Courte, che, per la sua struttura, anticipa già i suoi lavori successivi: immagini documentarie di un villaggio di pescatori si alternano alla storia di una coppia parigina. Quando Agnès Varda con il suo caschetto bianco e rosso varcò la soglia dell’aula, in cui ogni martedì i ragazzi dell’École Normale Supérieure di Parigi organizzavano il Cineforum, capimmo immediatamente che si trattava di un essere straordinario.

Aveva 89 anni ma l’energia di una ragazza. Quella sera venne proiettato Le Bonheur, il suo primo lungometraggio a colori. Come lei stessa spiega in Varda by Agnès – retrospettiva del suo lavoro di artista – le scene che incontriamo in questo film, per l’uso dei colori, richiamano i quadri dei pittori impressionisti. Varda, nella stessa retrospettiva, racconta che nel suo lavoro è sempre stata mossa da tre elementi: ispirazione, creazione, condivisione.

L’ispirazione è il motivo per cui si fa un film: le motivazioni, le idee e gli eventi che scatenano il desiderio. La creazione è il modo in cui si realizza: la scelta dei mezzi e della struttura. La terza parola è condivisione: i film non sono fatti per essere guardati da soli, ma per mostrarli agli altri. Varda è profondamente cosciente del processo creativo che accompagna il suo lavoro.

La sua formazione filosofica e la professione di fotografa l’hanno portata a creare nel tempo una forma del tutto personale di cinema, che lei stessa ha definito “cinécriture”: un metodo che prevede la scrittura del soggetto insieme alla lavorazione del film. Questa scelta si rivelerà fondamentale poiché farà dell’imprevedibile la cifra distintiva del suo lavoro, rendendola fin da subito riconoscibile.

Conquisterà così un preciso stile cinematografico, non confondendosi con il filone della Nouvelle Vague, a cui viene spesso associata. La sua originalità va ricercata nella totale libertà di sperimentazione, nel modo unico in cui intreccia la finzione al documentario. Ne è un esempio Cléo de 5 à 7, il suo secondo film e il primo di una lunga serie in cui le donne sono le protagoniste assolute della scena. Non avendo a disposizione un grande budget per realizzarlo, Varda scelse di girarlo a Parigi in una sola giornata.

Ma, una volta iniziate le riprese, l’idea si fece ancora più radicale: concentrare tutto il tempo del film in sole due ore. La centralità assegnata alle figure femminili trova la sua massima espressione nel film L’Une chante l’autre pas (1975), che racconta la storia di due amiche molto diverse che si ritrovano dopo dieci anni ad una manifestazione per la legalizzazione dell’aborto in Francia, che venne approvata nell’anno in cui fu realizzato. Sempre nel 1975, a Varda venne chiesto da una rivista femminista di girare sette minuti sul tema “Che cos’è essere una donna?”.

Il risultato di quel lavoro è Réponse de femmes, in cui undici donne, nude in alcune scene, rispondono a questa domanda. Mostrare il corpo nudo per Varda ha un significato preciso. Ciò che le interessa non è tanto parlare della condizione femminile quanto scoprire la donna fisicamente, analizzando come reagisce a ciò che la società occidentale chiede al suo corpo. Una richiesta quasi schizofrenica: “Copriti, sii pudica” e allo stesso tempo “Mostra le gambe per vendere collant”.

La Varda, scomparsa due anni fa all’età di 91 anni, è stata originale non solo nel suo lavoro di cineasta ma anche nel modo di essere femminista. Potremmo dire che il suo cinema e il suo femminismo appartengono alla stessa ricerca: trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nel rapporto con il proprio corpo.  


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