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Una scena del film “Diabolik” diretto da Marco e Antonio Manetti

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C’è un fantasma che si aggira per l’Italia, un fantasma seduto in una Jaguar E type inseguito dalle Alfa Romeo della polizia, che sfreccia per Piazza della Scala a Milano, a Corso Marconi a Bologna, fiancheggiando i portici di Trieste o sullo sfondo delle montagne di Courmayer: ha sopracciglia sagomate e spesse, una calzamaglia nera, uno sguardo gelido che affonda nella “profondità degli abissi”, come canta Manuel Agnelli, nel film. È Diabolik.

Il protagonista del film dei fratelli Manetti (nelle sale da giovedì 16 dicembre), che sono riusciti a coronare un sogno inseguito, da qualche anno, da una discreta legione di produttori e registi, ovvero quello di portare al cinema uno dei più popolari fumetti di sempre.

A dir la verità Diabolik ha sempre avuto una spiccata vocazione alla crossmedialità. Per ben 3 volte è stato protagonista cinematografico (Diabolik di Mario Bava, 1968; la serie tv di animazione Diabolik di Charles Corton, Jean-Luk Ayak, Thierry Coudert, 40 episodi, 1999; la serie Diabolik, che Sky avrebbe dovuto realizzare nel 2014; Diabolik sono io di Giancarlo Soldi, 2019).

È esistita anche una collana (“Romanzi di Diabolik”) con quattro titoli di Andrea Carlo Cappi, e numerose e rapsodiche sono le sue comparsate in spot e videogames, senza dimenticare la parodia che, nel 1967, gli ha dedicato uno dei registi più rappresentativi della commedia all’italiana, Steno, con Arriva Dorellik, protagonista Johnny Dorelli.

La sua più celebre incarnazione è sicuramente quella di John Philippe Law, con a fianco Marisa Mell nei panni di Eva Kant, i quali, nel film di Mario Bava, erano icone che si stagliavano in un abbacinante caleidoscopio iperrealista più vicino alla pop art che all’austero espressionismo, al gotico geometrico della scena originaria di Diabolik, creato da Angela e Luciana Giussani, le colte borghesi milanesi cui si deve l’invenzione di questo personaggio che è il primo, dal dopoguerra, in Italia, ad appartenere al mondo del crimine e a catturare fantasia e immaginazione di centinaia di milioni lettori.

I Manetti, come hanno raccontato, sono riusciti a vincere la riluttanza della proprietà attuale a concedere i diritti di sfruttamento del fumetto sul grande schermo, con una semplice mail in cui spiegavano le loro intenzioni di rimanere il più fedeli possibile a storia, caratteri e stile visivo dell’originale senza avventurose e personali interpretazioni e attualizzazioni degli intrighi di polizia e di terrore, di rapine e travestimenti, di inseguimenti e agguati che, per certi versi, imparenta la narrativa di Diabolik più ai criminali del muto, da Fantomas a Mabuse, che a quelle del crime contemporaneo.

È un mondo fatto di tagli di ombra e diamanti che irradiano riflessi di luce, di ossessione della sfida (Diabolik/Gianluca Marinelli versus Ginko/Valerio Mastandrea) ma anche di tardoromanticismo (i tratti fondamentali di Diabolik sono la mancanza di scrupoli nella violenza e la dedizione totale nei confronti di Eva Kant, una affascinante e misteriosa vedova, interpretata da Miriam Leone, che lui incontra proprio nel primo dei tre film che i due fratelli registi dedicheranno a Diabolik).

Un mondo irretito dall’inganno stupefacente delle maschere di lattice (che consentono a Diabolik di assumere qualsiasi identità) e dal feroce controllo della tecnica (Diabolik è un esperto chimico in grado di inventare per ogni colpo nuovi sorprendenti dispositivi), in cui le macchine hanno una personalità non meno spiccata dei loro proprietari: la Jaguar di Diabolik (disegnata da Malcom Sayer e prodotta dal 1961 al 1975 è stata definita la coupè gran turismo più bella di sempre), la Citroen DS di Ginko, che aveva 83 cavalli: contro i 265 della Jaguar, ma possedeva le famose sospensioni idropneumatiche che gli consentivano di “assorbire perfettamente le asperità del terreno e di mantenere un’altezza da terra costante”, e quindi di riuscire a difendersi dalle infermali trappole che Diabolik gli disseminava davanti.

Entrambi, tuttavia, a differenza dei loro possessori, avevano un design di curve flessuoso e seducente, una carrozzeria che mimava la carne e la sensualità: come se le sorelle Giussani avessero trasferito nella tecnologia una femminilità che questi due antagonisti, accaniti e ossessivi, sembravano ripudiare senza tregua con la propria identità.


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