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LUNGHI capelli biondi, pressoché perennemente mossi dal vento. Grandi occhi celesti, simbolo di quella trasparenza d’animo che il destino le ha negato. Lunghe ciglia che ombreggiano di malinconia ogni sguardo. E un sorriso a metà, cinicamente segnato, che a volte sfocia in risate piene, maschera di alte – e altre – inquietudini.

Lady Oscar è bella. Oltre ogni immaginazione, oltre ogni regola e soprattutto oltre ogni definizione. Ed è forte nell’animo e nel braccio, nel temperamento e nella dignità. È per questo binomio, che fa del personaggio l’archetipo letterario e biologico dell’androgino qui stemperato da una moderna fragilità, che negli anni l’eroina e il manga di cui è protagonista sono stati considerati un contributo all’affermazione di una nuova condizione della donna. Una sorta di manifesto femminista a fumetti. È stata la stessa autrice Riyoko Ikeda a puntare l’attenzione su questa interpretazione e sui limiti nei quali erano costrette le donne non solo nel Settecento pre-rivoluzionario francese ma anche all’epoca della realizzazione del manga, a partire dalla sua stessa sfida di volersi fare mangaka e non più semplicemente, come avrebbe voluto la tradizione di genere, servizievole sposa.

Lady Oscar è dunque un manga femminista, per vocazione e progetto, pensato per dare voce alle donne, regalando loro un’eroina da prendere a modello. Anzi da superare. Ma è, per proiezione e inconscia metabolizzazione, soprattutto un manga di denuncia “sociale”.

A essere portata sotto i riflettori dall’autrice, infatti, è la schiavitù – di costumi, società, pregiudizi – che di fatto diventa protagonista nel suo essere ostacolo all’alterità della donna. Per rappresentare la costrizione violenta dei costumi e dare alla sua eroina ancora più rilievo, la Ikeda sceglie un antagonista “ambientale”, diffuso, definito per epoca ma esteso tra tempo e spazio, nel suo essersi fatto tradizione e regola. Ed è proprio l’antagonista la vera sorpresa della storia, nella lucidità della visione, nella subliminalità dell’impatto.

Oscar non è la donna che prende le armi per liberarsi da regole e limiti imposti al proprio sesso, né per contrastare le prevaricazioni degli uomini, no, Oscar prende le armi per seguire altre regole e altri limiti. Non cambia lo schema di gioco, cambia la prospettiva. Il suo eroismo non è quello di una suffragetta in lotta per il diritto all’esistenza e alla parità, bensì quello di matrice epica classica che porta l’eroe tragico ad accettare il suo destino senza tentare di contrastarlo. Nata femmina, è costretta a crescere come un maschio per rispettare la schiavitù della discendenza che lega la progenie maschile all’onore della famiglia di appartenenza. Oscar non può scegliere cosa essere perché la sua coscienza matura a decisione già presa e vita avviata, quando diventare qualcosa di nuovo significherebbe in realtà tornare indietro. Non è interessata al genere che deve portare in scena ma alla perfezione come unico vero obiettivo di vita.

La sua vocazione è essere l’idea che è stata costruita per lei, più ancora l’ideale in cui e per cui è stata cresciuta. E se Oscar è costretta nel suo ruolo, i personaggi che la affiancano non sono meno vincolati. Andrè non può che restare al fianco dell’amata, inizialmente bandito dal suo cuore per nascita più che per sentimento. E non può neppure concedersi le lacrime che, invece, Rosalie, donna e a sorpresa di sangue nobile, può versare per il suo stesso amore. Andrè è travestito quanto Oscar: non ha bisogno di indossare altri panni per essere vincolato alla maschera dell’attendente prima e del compagno d’armi poi.

Maria Antonietta non può vivere la sua gioventù per una politica molto più grande di lei e diventa merce di scambio, suggello di un patto. E non può conoscere la passione, se non nella versione idealizzata e disperata di un batticuore furtivo, cui dovrà rinunciare per mantenere salda non la sua corona, ma quella di ben due Stati, che per un suo sguardo di troppo finirebbero per dichiararsi guerra. La Corte sa la passione che lega la regina a Fersen e non la condanna per ciò che prova ma per ciò che mostra. Le lacrime di Maria Antonietta denunciano la colpa della sua ricerca di felicità. Versailles potrebbe accettare il Conte come suo amante, non può tollerarlo come amato. È una questione di ruoli, regole, costumi. Maschere. Il “travestimento” di quell’amore vincola pure Fersen, che non può amarla che alla distanza, di quella stessa responsabilità politica schiavo.

Perfino Luigi XVI non è libero, schiavo di quell’amore combinato che improvvisamente è diventato sincero e tanto profondo da accecarlo. Il sovrano sa, intuisce, non ignora il pettegolezzo ma deve mascherare la consapevolezza per non essere costretto ad agire da re. La trappola della Corte fa il resto, trasformando in burattini proprio i suoi primi attori.

Andando al di là della volontà dell’autrice, nel sentimento della storia, Lady Oscar è la storia corale di mille e una schiavitù che caratterizzano la Vita, attimo dopo attimo, per paradosso, nelle regole che l’uomo le ha imposto. La “rivoluzione” di Oscar è consentita nel gioco di Versailles, dove il lusso aristocratico rende più elastici i costumi e la morale, tollerando vezzi e vizi, soprattutto fantasie, perfino quella snaturante di un padre sulla figlia. È accolta in seno alla cultura di una Francia libertina, che si fa bella dei suoi dongiovanni e di De Sade, cercando nuovi svaghi e azzardi alla noia del quotidiano, fosse anche solo quello di fantasticare sull’ambiguità di un Capitano-fanciulla in abiti non suoi.

Ma quella stessa rivoluzione non è tollerata nel Giappone anni Settanta della Ikeda. Quindi, sì, Lady Oscar è femminista nella misura in cui sottolinea come alla donna sia negato essere diversa da ciò che ci si aspetta che sia, pena la solitudine, il dubbio, la morte. È femminista perché parla di schiavitù nei toni diretti di un dialogo di genere. Ma è anche maschilista, nella prima e ultima parola che all’uomo riconosce come diritto, al di là del “gioco” delle parti. È maschilista nella consapevolezza che le Giovanna d’Arco della storia muoiono bruciate per “liberare” il mondo dalla difficoltà di trovare loro un posto nel quotidiano.

Testo estratto da “Lady Oscar. L’eroina rivoluzionaria di Riyoko Ikeda” di Valeria Arnaldi, Edizioni Ultra. © 2015 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione


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