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Una delle perquisizioni

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Sembrava il più defilato. In posizione eccentrica. Invece era, almeno fino a ieri, il gestore occulto del patrimonio dei capi della ‘ndrangheta autoctona emiliana.

L’ultimo dei fratelli Sarcone rimasti in libertà era anche anagraficamente il più anziano: Giuseppe Grande Sarcone ha 60 anni e, a differenza dei fratelli Nicolino (il più autorevole in senso criminale, capo conclamato della filiale emiliana della super cosca Grande Aracri di Cutro, con epicentro a Reggio Emilia), Carmine e Gianluigi, era sfuggito alle inchieste che a più non posso hanno colpito l’articolazione reggiana del clan.

Ma con l’operazione Perseverance scattata ieri nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Bologna che si configura come un seguito della più vasta Aemilia, da cui è già scaturito il processo più grande contro le mafie mai celebrato al Nord, è stata ricostruita “l’intera vita criminale” di colui che, negli ultimi anni, era divenuto il gestore occulto di un impero economico.

IL BLITZ

Ne sono certi gli inquirenti che ieri hanno condotto il blitz. La Squadra mobile della questura di Reggio Emilia e i carabinieri del Comando provinciale di Modena ieri all’alba hanno eseguito 35 perquisizioni nelle province di mezza Italia e dieci misure cautelari (sette in carcere, due ai domiciliari e una misura interdittiva nei confronti di un commercialista di Parma, Alessandro Sicuri) su disposizione del gip distrettuale di Bologna, Alberto Ziroldi, e su richiesta dei procuratori Giuseppe Amato e Beatrice Ronchi.

In tutto sono 29 gli indagati nell’ambito di due filoni che convergono entrambe sulla figura di colui che era l’attuale vertice dell’associazione ‘ndranghetista di matrice cutrese operante in Emilia. Le accuse sono, a vario titolo, quelle di associazione mafiosa, finalizzata, tra l’altro, al recupero di crediti di natura estorsiva e al trasferimento fraudolento di valori mediante l’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro, riciclaggio, ma c’è anche una tentata estorsione.

Ed è venuta fuori l’ennesima conferma della capacità del sodalizio ‘ndranghetistico emiliano, storicamente legato alla cosca Grande Aracri di Cutro ma operante con relativa autonomia, di infiltrarsi nei settori centrali dell’economia.

Giuseppe Grande Sarcone, per il tramite di prestanome, avrebbe, di fatto, gestito varie attività nelle province di Modena e Reggio Emilia, dalle sale scommesse alle officine meccaniche, dalle carrozzerie alle società immobiliari, nel tentativo di salvaguardare il proprio patrimonio da prevedibili sequestri, alla luce della misura di prevenzione già emessa nel settembre 2014 nei confronti della famiglia. In questo contesto sono state sequestrate cinque società (due a Modena e tre a Reggio Emilia), quattro complessi immobiliari (tre a Cutro e uno a Reggio Emilia).

IL FILONE INVESTIGATIVO

Il filone investigativo sviluppato dalla polizia si è in principio incentrato sulla figura di Salvatore Muto, fratello di Luigi e Antonio, entrambi condannati anche di recente dalla Corte d’appello di Bologna nel processo Aemilia, il quale, rimasto in libertà, avrebbe proseguito l’attività illecita dei fratelli, mettendo tra l’altro in contatto la cosca emiliana con due insospettabili coniugi modenesi, incensurati ma, a quanto pare, assai spregiudicati.

I due, Alberto Alboresi e Genoveffa Colucciello, avrebbero affidato al clan un primo incarico consistente nel provocare lesioni, anche mediante versamento di acido sul viso, a una badante che, poiché si prendeva cura dei parenti in età avanzata, era suo malgrado divenuta di ostacolo all’acquisizione illecita di un ingente patrimonio posseduto dagli anziani indifesi.

Una vicenda di «allarmante gravità», secondo il gip Ziroldi, e che appare emblematica della «operatività del sodalizio ‘ndranghetistico in versione aggiornata e adattata alle mutevoli esigenze del mercato».

La ricostruzione dell’episodio – anche se non raggiunge la soglia della rilevanza penale – è davvero inquietante. Sarebbe stato il presunto affiliato Domenico Cordua a proporre al coindagato Giuseppe Friyio e a un albanese di compiere il raid.

LE INTERCETTAZIONI

«Domenico: no, questo è semplice… se lo volete fare… io vi spiego quello che c’è… c’è da picchiare una donna… due pugni … o la mandate in ospedale o le buttate un po’ di acido sulla faccia». Segue la descrizione della vittima, sulla sessantina: «Lei ha una macchina… è pacioccona…». Uno degli interlocutori si mostra perplesso: «L’acido sai cosa le fa? Che dagli occhi non vede più». E Cordua: «Bravo… e quello devi fare». E se Friyo osserva: «L’hai rovinata», l’altro parlante commenta: «Meglio sparare che rovinarle la vita».

Il raid rimase in fase di pianificazione perché la polizia, che monitorava gli indagati, compì perquisizioni e svolse interrogatori che allarmarono i pianificatori dell’aggressione. Peraltro grazie all’operazione Bilions della Procura reggiana, che di recente ha portato alla luce un’organizzazione calabro-emiliana dedita a false fatturazioni tramite società cartiere, sono stati ricostruiti flussi finanziari transitati dalla disponibilità di conti intestati o accesi dai fratelli anziani (in genere a loro insaputa) verso società terze. Alboresi e Colucciello, insomma, erano già balzati all’attenzione degli investigatori come truffatori degli anziani.


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