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il direttore generale della Svimez, Luca Bianch

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Intervista con il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi: “Dopo il Covid l’economia è cambiata”, il Sud è centrale nelle politiche industriali e l’Autonomia danneggia tutti


Alla fine dell’intervista, Luca Bianchi, economista e direttore generale della Svimez, cita un grande meridionalista, Pasquale Saraceno: “Diceva che le scelte per il Sud saranno decisive per la politica industriale di tutto il Paese”. Ma il filo del suo ragionamento parte dall’attualità, dall’addio definitivo alla decontribuzione per il Sud.

E’ finita una stagione delle politiche meridionalistiche?

“La decontribuzione era molto legata a fattori emergenziali, come il Covid e vene poi prorogata con la guerra in Ucraina. E’ un intervento orizzontale e non molto mirato. La sua improvvisa abolizione potrebbe frenare o addirittura interrompere quella dinamica dell’occupazione, molto positiva, che si era registrata negli ultimi mesi”.

Quali possono essere gli effetti sulle imprese?

“Il vantaggio della decontribuzione è stato, sostanzialmente, acquisito dalle aziende e non ha avuto riflessi sulle buste paga dei lavoratori. La dinamica dei salari è stata negativa. Lo stop allo sconto fiscale sugli oneri contributivi potrebbe avere un impatto soprattutto nei settori dove è più basso il valore aggiunto, come quello delle costruzioni”.

Non sarebbe stato meglio un addio graduale, in attesa del nuovo regime di aiuti?

“Sarebbe stato sicuramente necessario un decalage più morbido, soprattutto per preparare una nuova proposta, maggiormente compatibile con la normativa europea sugli aiuti di Stato”.

Ha qualche idea?

“Penso che la nuova decontribuzione dovrebbe essere più selettiva. Concentrando le risorse su alcuni settori per aumentare, ad esempio, la specializzazione del Sud in alcune filiere produttive. O puntando gli aiuti su alcune categorie, come i laureati, per frenare la fuga dei talenti. Una decontribuzione più selettiva costerebbe meno, sarebbe compatibile con le norme europee e, forse, produrrebbe maggiori effetti sul tessuto produttivo e sociale del Sud”.

Prima la Zes unica e poi il nuovo decreto per le politiche di coesione. Come cambiano le politiche per il Sud?

“Segnalo due elementi positivi. In primo luogo, una ripresa di responsabilità da parte del governo centrale sugli interventi per il Mezzogiorno dopo troppi anni di delega alle Regioni. Inoltre, c’è il tentativo di coordinare meglio i programmi di spesa. Si vuole, insomma, costruire un vero e proprio intervento strategico per il Sud. Il problema è quello di realizzarlo in tempi rapidi e senza impattare sui ritmi della spesa”.

Non sarebbe utile, a questo punto, una nuova cassa per il Mezzogiorno, come quella di Menichella e Pescatore, che pianificava, programmava e realizzava?

“Non possiamo dimenticare che dai tempi della prima Cassa, la Costituzione è cambiata, le competenze delle Regioni sono aumentate. Il tema non è solo la capacità amministrativa degli enti periferici: anche i ministeri presentano grandi deficit. Il vero problema è stato quello della frammentazione delle programmazione e una logica autoreferenziale della spesa. Non serve sostituire ma occorre più coordinamento con un rafforzamento della regia centrale. Il modello può essere quello del Pnrr che non toglie responsabilità attuative agli enti locali”.

Però l’autonomia differenziata può dare maggiori poteri alle regioni del Nord. Non è una contraddizione?

“E’ una contraddizione enorme, che purtroppo ribadisce la teoria delle due Italie: al Nord le Regioni, al Sud lo Stato. Ma, in questa maniera, si continuano a frammentare gli interventi e si perde l’obiettivo di una politica nazionale. Per questo, come Svimez, abbiamo espresso la nostra contrarietà alla questo modello di riforma”.

Mi dice tre motivi per cui la riforma Calderoli rischia di aggravare il divario?

“Riduce la competitività del Paese, cristallizza i divari di cittadinanza e, infine, propone un modello di autonomia senza responsabilità, basato unicamente sul trasferimento di risorse nazionali alle regioni che ne fanno richiesta, ignorando qualsiasi tipo di analisi di impatto”.

La Corte dei Conti ha messo in guardia sulla quota del 40% del Pnrr da destinare al Sud. Fitto dice che rispetterà la soglia. Chi ha ragione?

“C’è un rischio oggettivo: aver spostato 6 miliardi dal capitolo delle infrastrutture a quello degli incentivi per le imprese destina, di fatto, maggiori risorse al Nord. Servono interventi correttivi e occorre modificare i criteri di ripartizione. Sarebbe utile, ad esempio, superare il sistema dei bandi. Un piccolo segnale è arrivato dal ministro Valditara che ha deciso di ripartire le risorse aggiuntive degli asili nido identificando a monte le aree dove dovrebbero essere realizzati”.

Il Sud negli ultimi anni ha mostrato straordinari segni di vitalità. E’ così?

“Ci sono stati, nel periodo post Covid, elementi di ripresa legati anche fattori esterni. Le ultime crisi, infatti, hanno modificato i processi di globalizzazione, accorciato le filiere produttive e restituito centralità alle aree un tempo periferiche, come la Spagna o lo stesso Mezzogiorno. In più, il Sud ha conservato presenze importanti in alcuni comparti produttivi e industriali, dall’automotive alla la filiera delle rinnovabili fino all’aerospazio, settori strategici a livello Europeo. C’è una forte domanda di investimento che arriva dal Sud. Ma è l’Italia tutta che deve crederci”.

Mi convinca che non è solo trita retorica meridionalistica.

“Lo dicono i numeri. Il potenziale di crescita dell’Italia è praticamente nel Mezzogiorno, dove ci sono importanti filiere produttive ed europee che possono finalmente portare il Paese a non essere solo il subfornitore di imprese estere. Prendiamo l’automotive, uno dei nostri settori strategici: di fatto è prevalentemente meridionale. E le scelte nazionali che si faranno per questo settore avranno un impatto decisivo per tutti. Insomma, aveva ragione Pasquale Saraceno quando diceva per le decisioni che saranno prese per il Sud saranno decisive per la politica industriale del Paese. E, aggiungerei, per la stessa sostenibilità dei conti pubblici e la permanenza di Europa. La vecchia tesi che contrapponeva il Nord Produttivo al Sud assistenziale ha fatto perdere terreno anche al Settentrione. Un grande fallimento collettivo per l’intero Paese”.


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