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Il presidente Macron e la cancelliera Merkel in una pausa della lunghissima trattativa al Consiglio d’Europa

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NON E’ eccessivo definire le conclusioni dell’estenuante Consiglio europeo del 17-21 luglio come storiche. Oltre ai dettagli tecnici e per certi versi al di là delle cifre, è necessario sottolineare le due lezioni politicamente più rilevanti che giungono dal summit appena concluso. Da un lato il treno della “mutualizzazione del debito” ha iniziato la sua corsa. E’ impensabile prospettare i tempi e le modalità, ma sarà impossibile tornare indietro.

Luglio 2020 apre una potenziale nuova era del processo di integrazione come non era avvenuto a seguito della crisi dell’area euro. Ma il momento è altresì storico per il messaggio che l’Unione europea manda al resto del mondo, impegnato nella titanica sfida del Covid. Giungendo dopo il trauma dell’uscita di uno dei Paesi membri (Brexit, per intenderci), la risposta in ordine sparso al Covid 19 e alle clamorose crisi economico-sociali che si sono aperte con differenti intensità nei Paesi membri, avrebbe significato recitare il de profundis globale per l’immagine stessa di Europa unita. Questo non è accaduto, al di là dei dettagli dell’accordo finale. L’Ue ha battuto due colpi, forti e di grande impatto, almeno potenziale, per il suo futuro. Inebriati dal successo, non bisogna però finire per accreditare conclusioni affrettate e semplicistiche.

A vincere è l’Unione europea come sistema intergovernativo. Cioè i protagonisti del negoziato sono stati come non mai gli Stati sovrani, guidati dai rispettivi capi di Stato e di governo. Questo risulta evidente se si osserva il ruolo di comprimario svolto da von der Leyen, oscurata dai principali leader nazionali almeno quanto dal presidente del Consiglio Michel. Le cifre della sua proposta, 500 miliardi di sussidi e 250 di prestiti, sono state piuttosto stravolte. E come non evidenziare che ad uscire a pezzi dal negoziato sono le principali linee politiche espresse al momento del varo della sua Commissione. Per ragioni essenzialmente di equilibrio negoziale (intergovernativo), le famose risorse proprie della Commissione, concretizzabili solo con la crescita di una tassazione prevista su materie plastiche, emissioni di anidride carbonica (carbon tax) e giganti digitali, sono uscite dall’orizzonte del dibattito del summit.

Ma la centralità degli Stati nel negoziato è facilmente individuabile se si osserva il successo, perché di tale si tratta, dei cosiddetti “frugali”. La coppia di testa austro-olandese non ha solo incassato lauti rebates, ma ha ottenuto un controllo molto stringente sui piani nazionali finanziati con il denaro del Recovery Fund. Inutile esultare troppo di fronte alla supposta sconfitta olandese, connessa all’assenza del potere di veto. Il cosiddetto “freno”, con successivo passaggio del dossier all’Ecofin e alla Commissione fino ad un voto a maggioranza qualificata in Consiglio, in realtà inserisce comunque un’arma politica letale proprio nelle mani di ciascuno dei 27 Paesi membri. Lasciare ad ogni singolo governo la possibilità di poter contestare la legittimità dei singoli piani nazionali è un’arma politica e mediatica potenzialmente devastante per la reputazione dello Stato che vi si troverà sottoposto, almeno quanto per l’evoluzione sovranazionale dell’Ue.

L’importanza degli Stati sovrani nel negoziato è altresì certificata da ciò che è accaduto sulle cosiddette garanzie di liberalismo politico e sulla proposta di legare tali principi all’erogazione dei fondi. Sull’altare del realismo politico si sono sacrificati i principi liberali. Per ottenere il sostegno indispensabile di Orban e del gruppo di Visegrad, si è deciso di mettere tra parentesi la sacrosanta critica alle pericolose derive autoritarie sempre più diffuse in Europa orientale. E infine il ruolo di primo piano svolto dall’asse franco-tedesco ha suggellato tale centralità delle sovranità nazionali in questo storico tentativo di ripartenza del progetto europeo. Anche da questo punto di vista proprio l’attivismo olandese ed austriaco, ma anche quello italiano e spagnolo, ha evidenziato come in questa Europa intergovernativa a 27 l’asse Berlino-Parigi risulti indispensabile, ma assolutamente non sufficiente. Minoranze di blocco sono sempre dietro l’angolo e le numerose fratture in campo sono lo specchio che riflette, appunto, un’Unione profondamente intergovernativa.

Senza passare dalla poesia alla prosa e come spesso accade negli ultimi mesi, le parole di Merkel sono quelle che con maggiore efficacia colgono il senso della congiuntura: «L’Europa ha fatto il proprio dovere». Di fronte al baratro, e con questo termine ci si riferisce prima di tutto rischio default della terza economia dell’Ue (cioè il nostro Paese), l’Unione ha saputo dare un colpo d’ala. Il dopo summit di Bruxelles permette di abbozzare un primo bilancio dell’Ue confrontata al Covid-19 nel periodo marzo-luglio 2020. Si è passati dall’incapacità disarmante e imbarazzante di fornire una risposta all’emergenza prima di tutto sanitaria, alla scelta matura e consapevole di scongiurare l’autodistruzione. Una volta spente le luci del summit, iniziano due nuove partite altrettanto complesse. Da una parte implementare in tempi rapidi tutto ciò che è contenuto nelle conclusioni del summit e tale nuovo capitolo si prospetta molto complicato. Dall’altro lato, e parallelamente, è necessario l’avvio di una riflessione sull’indispensabilità di uno scatto istituzionale. L’appuntamento del dopo 1989 è stato clamorosamente mancato. Si pensa di reiterare l’errore a 30 anni di distanza? Se il momento è storico, che lo sia fino in fondo.


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