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Matteo Salvini e Luigi Di Maio

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Camminiamo, ballando e ridendo, tra una spiaggia e l’altra, verso una situazione greca. Ci rifiutiamo di credere che non prevalga un sentimento di consapevolezza della gravità della situazione italiana e della necessità (inderogabile) di mettere in sicurezza la finanza pubblica e il dialogo con l’Europa. Siamo l’unico paese europeo a non avere raggiunto i livelli pre-crisi e viaggiamo sul filo del rasoio di crescita zero e reputazione sui mercati ai minimi storici con livelli di spread tripli di Spagna e Portogallo, mai successo neppure nei giorni della Grande Crisi Sovrana del 2011.

Registriamo andamenti di mercato con schizzi dello spread quasi di tipo venezuelano o argentino, ci aspettano al varco l’attacco di Trump all’Europa che vuol dire le economie di Germania e Italia nel mirino e dovremo fare i conti con gli effetti nefasti della Brexit.

La piccola navicella italiana è chiamata a attraversare questi marosi, ma non ne può uscire indenne se alla sua crisi competitiva, ormai strutturale, in un quadro geopolitico delicatissimo, aggiunge il carico da novanta di una campagna elettorale che non è più quella permanente tra separati in casa di un matrimonio di governo contro natura ma una competizione vera che ha in gioco il governo del Paese. Si è incattivito il clima politico e logorato il tessuto civile, prima che saltino anche tutti i rapporti umani, si impone una fase di decantazione.

Il bagno di folla tra Basilicata e Calabria, da Policoro a Isola Capo Rizzuto fino a  Soverato, tra strette di mano, selfie e contestazioni anche molto dure, del capo leghista e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, mette a nudo una spregiudicatezza di comportamenti che inquieta e riproduce il copione avvilente di un Mezzogiorno terra di conquista (non tutto) popolato da servi volontari del padrone sovranista di turno. No, questo è troppo.

 Questo giornale ha documentato che, con il trucco della spesa storica, i proconsoli salviniani alla guida delle Regioni Lombardia e Veneto si accaparrano ogni anno decine e decine di miliardi di spesa sociale e investimenti produttivi dovuti al Sud per alimentare piccoli e grandi carrozzoni clientelari del Nord. Prima di invocare selfie, prostrarsi e scene simili si chieda conto al dante causa di Fontana e Zaia, in arte “Gallo” e  “Paglietta”, quelli che se si parla di spesa storica “nemmeno ci sediamo al tavolo” e “se vinciamo le elezioni la partita dell’autonomia è chiusa il giorno dopo”.

Se il dante causa sarà come sempre empaticamente sfuggente, si abbia almeno la  forza di chiedergli a muso duro: a che gioco stiamo giocando? La vergogna civile, prima ancora che economica, di 18 euro a bambino in Calabria e 3mila a bambino in Brianza per gli asili nido, tutta spesa pubblica, grida vendetta di fronte a Dio e agli uomini.

La stessa cosa vale per le mense scolastiche, gli ospedali, la ricerca, i treni, l’alta velocità. Altro che autonomia differenziata, il Paese ha bisogno di abolire le Regioni, di tornare al servizio sanitario nazionale, e di riuscire a fare finalmente infrastrutture di sviluppo a partire dal Mezzogiorno senza che la politica e le burocrazie regionali del Nord continuino a svolgere il duplice miserabile ruolo di interdizione  e di estrazione di risorse pubbliche che sono insieme all’origine del più grande scippo di Stato del Nord a spese del Sud che la storia repubblicana recente ricordi.

L’operazione verità lanciata da questo giornale, sulla base di dati certificati del sistema statistico nazionale, ha aperto squarci inediti e si avvia a diventare patrimonio condiviso della classe dirigente di questo Paese. Chi si rifiuta di ragionare di questi numeri, come Fontana, Zaia, la ministra Erika Stefani, si pone fuori dalle regole unanimi della Costituzione e della contabilità, agisce in modo greve e miope condannando il Nord a un destino di colonizzazione e il Sud a una deriva di povertà estrema. Il Capo di questa pattuglia di estrattori di risorse pubbliche del Sud per regalarle al Nord si chiama Matteo Salvini. O fa abiura totale o costituisce il pericolo principale alla realizzazione dell’interesse generale che è quello dell’unificazione economica e sociale del Paese e non della sua frammentazione. 

Di fronte a questo generale gioco al massacro, dove finiscono a rischio il risparmio e, ancora di più, il lavoro degli italiani e i diritti di cittadinanza della popolazione meridionale, si impone una tregua. Paolo Pombeni suggerisce un governo non politico e di transizione con tempi e scadenze certe rimuovendo pietre e macigni di cui è disseminato il cammino. Noi ci eravamo fermati un centimetro prima e avevamo suggerito la scelta di una guida politicamente neutra in modo credibile. Chi di dovere saprà fare meglio di noi l’importante è che si muova nel solco di responsabilità che gli appartiene in modo naturale.

Nel merito ci permettiamo di aggiungere alle due priorità assolute da tutelare, la messa in sicurezza della finanza pubblica e il dialogo con l’Europa che rinsaldi la nostra appartenenza, una terza di eguale se non superiore valore che è quella dell’operazione verità sulla ripartizione della spesa pubblica territoriale tra Nord e Sud. Partendo da qui tutto diventa naturalmente più limpido e il gioco sporco del gattopardismo di sempre della politica italiana viene finalmente messo a nudo alla luce del sole.

Salvare il Paese dalla marea dilagante del vaniloquio populista e sovranista e metterlo in sicurezza, fare chiarezza sulla contabilità nazionale di fronte all’attacco in atto all’unità del Paese con l’autonomia differenziata, sono le pre-condizioni indispensabili per garantire in un tempo ragionevole un voto consapevole. Nessuno deve avere paura dell’operazione verità. L’alternativa è la deriva sudamericana di uno dei tre Paesi Fondatori dell’Europa e il suo dissolvimento. Nessuna persona di buon senso può desiderare una simile prospettiva per il suo Paese. 


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