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Giuseppe Conte

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Mi chiedono: ma perché un Conte bis? Se si vuole discontinuità perché  lui? Se si vuole iniziare una nuova stagione politica perché lui? Si  può fare la nuova “solidarietà nazionale” con lo stesso premier  del primo governo populista-sovranista che ha “chiuso i porti”, ha  portato il Paese al minimo storico di reputazione mondiale e ha  accompagnato l’azienda Italia alla crescita zero?

La mia risposta è: chi, se non lui? Soprattutto, chi se non lui può  convincere la massa di parlamentari pentastellati, più del doppio di  quelli democratici, a chiudere per sempre con il partito padano del Nord  che saccheggia da almeno un decennio il bilancio pubblico italiano a  spese del Sud e vuole blindare tutto in una cassetta di sicurezza di cui  solo Salvini avrà il codice di accesso e deciderà, di volta in volta,  come e quando aprirla a Di Maio e ai suoi cari mentre il Sud  sprofonda?

Chi si è beccato del piccolo uomo e dell’inetto dallo “statista di  Varese”, Attilio Fontana, per avergli ricordato che il Paese è uno e  che la spesa storica nasconde indebiti privilegi? Chi è stato il primo,  con una lettera a sua firma al nostro giornale, a riconoscere che c’è  un oggettivo squilibrio tra spesa pubblica allargata diretta al Nord e quella diretta al Sud per cui ballano 60 e passa miliardi regalati ai  ricchi e indebitamente sottratti ai poveri? Chi ha posto con forza il  problema numero uno del divario infrastrutturale tra le due Italie che  è il simbolo dell’aberrazione civile di una nazione e del suo  volontario suicidio economico e sociale? La risposta è sempre la  stessa: Giuseppe Conte. Ecco, con lui mi sento garantito che  l’operazione verità sulla ripartizione della spesa pubblica tra Nord  e Sud e i giochetti sporchi che mirano a  confondere inesistenti  residui fiscali territoriali con quelli individuali, si compirà. L’indagine conoscitiva, voluta con così tanta perseveranza e  intelligenza politica dalla presidente della Commissione Finanze della  Camera, Carla Ruocco, permetterà, finalmente, di non parlare più a  vanvera. Si ripartirà da numeri condivisi come in tutte le democrazie  moderne.

Per capirci, noi sappiamo perfettamente che il più clamoroso (miope)  scippo di Stato che la storia politica recente ricordi è certificato  dai conti pubblici territoriali, ideati da Ciampi e espressi dal meglio  della statistica nazionale, è certo perché basato su dati  indiscutibili. Noi sappiamo con altrettanta sicurezza che non c’è  istituzione contabile e economica della Repubblica italiana che non ne  dia conferme in un numero infinito di sue analisi tecniche e  elaborazioni statistiche, ma ciò non di meno ci tocca di sorbirci le  lezioncine stucchevoli, oltre che false, dei Fontana e dei Zaia,  Governatori di Lombardia e Veneto, per noi in arte il “Gallo” e il  “Paglietta”. L’operazione verità si abbatterà sulle loro schiene  con la forza dello scudiscio della verità e li farà ritrovare curvi e  derisi di fronte alle loro comunità che si renderanno conto, per la  prima volta, di essere stati presi in giro dallo “statista di  Varese” e dal “doge Veneto”.

Questa operazione verità, frutto delle nostre inchieste giornalistiche,  serve all’Italia intera e può essere la concreta base culturale di  una svolta di politica economica nazionale che metta al centro gli  investimenti produttivi e le infrastrutture di sviluppo a partire dal  Mezzogiorno. Antonio Misiani, indicato dal Pd per la guida  dell’Economia,  un bergamasco doc che si inserisce nel solco nobile  dei Marcora e dei Bassetti e non ha alcun timore a dire che Fontana e  Zaia fanno demagogia e disinformazione, ha voluto condividere e  elaborare questa strategia dalle colonne del Quotidiano del Sud. Ci  piacerebbe tanto che un’ipotetica coppia di governo tra il foggiano  Conte e il bergamasco Misiani facesse rivivere i fasti della stagione  dei Menichella e dei Di Vittorio, originari di Biccari e di Cerignola,  due Comuni appunto del foggiano, e del trentino De Gasperi e del  siculo-valtellinese Saraceno. Forse, stiamo andando oltre, ma di queste  aperture economiche che recuperano una regia centrale e chiudono la  stagione dei regionalismi feudali e/o “delinquenziali” il Paese  tutto ne ha vitale bisogno, e di questo comune sentire nella diversità  delle storie personali entrambi sono espressione.

Ma perché un Conte bis, mi continuano a chiedere, quando in tutti i  suoi editoriali ha sostenuto la necessità di assicurare al Paese un  timoniere internazionale, una figura che la cancelliera Merkel e mister  Trump sanno chi è, che gode della stima e del rispetto del mondo? Anche  qui, la risposta è semplice: qualcuna delle forze politiche  interessate, Partito democratico, Cinque Stelle, Leu, ha trovato la  forza di chiedere pubblicamente a Mario Draghi, l’uomo che dalla tolda  della Banca Centrale Europea  ha salvato l’euro e che oggi è la  faccia dell’Europa nel mondo, di fare un sacrificio per il bene del  Paese? Qualcuno di questi partiti lo ha chiesto a Prodi, l’unico  presidente della Commissione europea con Delors che resterà nella  storia dell’Europa per avere promosso l’allargamento ai Paesi  dell’Est sottraendoli all’influenza di Putin nonostante sia stato  proprio lui, come con l’Ulivo, a riaprire i giochi lanciando la cosiddetta formula  Ursula? Non mi pare.

Allora, dico: chi se non Conte che, per ben due volte, ha evitato la  procedura di infrazione all’Italia, dimostrando con i fatti, di non  condividere le pulsioni sovraniste e dilettantesche di Salvini e dei  suoi seguaci, facendo di testa sua e difendendo le ragioni  dell’interesse nazionale? Chi se non Conte che nel discorso di  chiusura del suo mandato di governo ha mostrato rispetto nei confronti  della regola che diventa sostanza e di un ancoraggio maturo alla  tradizionale collocazione europeista e transatlantica dell’Italia? È  vero o non è vero che Conte si è distaccato progressivamente, nel fare non nel dichiarare, dalla  politica-spettacolo e dalle degenerazioni peroniste di Salvini, e che  non gliene ha risparmiata una alla sua presenza, a Palazzo Madama, con  un linguaggio durissimo, ma sempre coraggiosamente istituzionale?

Voglio essere chiaro fino in fondo: vi sentireste più garantiti da un  premier come Luigi Di Maio, tenuto al guinzaglio da Salvini, o da un  professore di diritto di cultura internazionale che si muove  nell’ambito della storia italiana, in stretto contatto con la saggia  regia del Quirinale,  e che ha conquistato in poco tempo la stima dei  principali player globali? Su questo punto, siamo stati ancora più  trasparenti fin dall’inizio, le ipotesi possibili sono tre: Draghi,  Prodi, e l’aspirante statista, Giuseppe Conte. Nei primi due casi si  va sul sicuro, nel terzo si può scommettere, si resta in partita, si  assume un rischio calcolato nella situazione politica data,  ma si può  vincere la partita e guai a chi, tra un giochetto e l’altro, si muove  con la leggerezza di chi dimostra di non avere chiara la dimensione  qualitativa e quantitativa della partita internazionale in gioco.

C’è  bisogno di una mano ferma sul timone che eviti al barcone  italiano di finire rovinosamente sugli scogli, lo abbiamo detto più  volte e lo ripetiamo oggi. Perché questi sono i fatti, e questi fatti  sono ineliminabili, con essi siamo ovviamente costretti a misurarci. Con  Conte al timone, una squadra di ministri finalmente all’altezza, la  convinzione condivisa di partecipare a un grande progetto politico, ci  si può provare. Altrimenti siamo su scherzi a parte e non voglio  nemmeno immaginare i danni alla credibilità internazionale italiana che  potrebbe arrecare una campagna elettorale al calor bianco, dove  ancorché acciaccato nel suo mito da social network a menare le danze e  a fare da mattatore sarebbe ancora una volta Salvini e il suo disegno  sovranista-lepenista che conduce l’Italia all’isolamento in Europa e  il Paese intero a una marginalità e a una povertà, da extra costi di  vaniloquio, che davvero non merita. Si sfrutti piuttosto il tempo dato  dal Colle, quello giusto, per misurarsi con le ragioni programmatiche  della sfida politica nuova che si ha davanti. Si interroghino senza  pudori le rappresentanze parlamentari grilline e accettino la sfida di  contenuti complessi. Escano per sempre le rappresentanze parlamentari  democratiche dai tatticismi e dai giochi di potere correntizi.  Se non  si vuole rimettere in gioco il Ribaldo bisogna che l’azione di governo  sia di lungo termine, spenda il credito ricevuto in Europa perché non  venga a chiederci nuove tasse, si prema l’acceleratore sulle  infrastrutture di sviluppo nel Mezzogiorno, si avvii il  ridimensionamento strutturale delle esperienze regionali, si investa sul  capitale umano giovanile nelle scuole, nelle università, nella ricerca.

 Bisogna dismettere un metodo e un linguaggio che non superano i 140 o i  280 caratteri, si deve avviare la seconda ricostruzione del Paese e è  necessario, quindi, investire sulla competenza, l’intelligenza  tecnica, il talento giovanile senza steccati tra cultura laica e  riformismo cattolico. Bisogna evitare il baratro, coperto  dall’ombrello monetario di Draghi, ma assolutamente reale; occorre   fare in modo che gli italiani ritrovino la fiducia e comincino a vivere  meglio. Da molto tempo in qua ci hanno provato in tanti a parole, ma non  ci è riuscito nessuno. Se vogliamo un futuro degno per i nostri figli  dobbiamo augurarci che l’esperimento diventi realtà e funzioni. Dipende (molto) da  loro, ma un po’ anche da noi. Poi se la svolta avverrà, dipenderà  quasi tutto da noi.


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