Giuseppe Conte
8 minuti per la letturaMi chiedono: ma perché un Conte bis? Se si vuole discontinuità perché lui? Se si vuole iniziare una nuova stagione politica perché lui? Si può fare la nuova “solidarietà nazionale” con lo stesso premier del primo governo populista-sovranista che ha “chiuso i porti”, ha portato il Paese al minimo storico di reputazione mondiale e ha accompagnato l’azienda Italia alla crescita zero?
La mia risposta è: chi, se non lui? Soprattutto, chi se non lui può convincere la massa di parlamentari pentastellati, più del doppio di quelli democratici, a chiudere per sempre con il partito padano del Nord che saccheggia da almeno un decennio il bilancio pubblico italiano a spese del Sud e vuole blindare tutto in una cassetta di sicurezza di cui solo Salvini avrà il codice di accesso e deciderà, di volta in volta, come e quando aprirla a Di Maio e ai suoi cari mentre il Sud sprofonda?
Chi si è beccato del piccolo uomo e dell’inetto dallo “statista di Varese”, Attilio Fontana, per avergli ricordato che il Paese è uno e che la spesa storica nasconde indebiti privilegi? Chi è stato il primo, con una lettera a sua firma al nostro giornale, a riconoscere che c’è un oggettivo squilibrio tra spesa pubblica allargata diretta al Nord e quella diretta al Sud per cui ballano 60 e passa miliardi regalati ai ricchi e indebitamente sottratti ai poveri? Chi ha posto con forza il problema numero uno del divario infrastrutturale tra le due Italie che è il simbolo dell’aberrazione civile di una nazione e del suo volontario suicidio economico e sociale? La risposta è sempre la stessa: Giuseppe Conte. Ecco, con lui mi sento garantito che l’operazione verità sulla ripartizione della spesa pubblica tra Nord e Sud e i giochetti sporchi che mirano a confondere inesistenti residui fiscali territoriali con quelli individuali, si compirà. L’indagine conoscitiva, voluta con così tanta perseveranza e intelligenza politica dalla presidente della Commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, permetterà, finalmente, di non parlare più a vanvera. Si ripartirà da numeri condivisi come in tutte le democrazie moderne.
Per capirci, noi sappiamo perfettamente che il più clamoroso (miope) scippo di Stato che la storia politica recente ricordi è certificato dai conti pubblici territoriali, ideati da Ciampi e espressi dal meglio della statistica nazionale, è certo perché basato su dati indiscutibili. Noi sappiamo con altrettanta sicurezza che non c’è istituzione contabile e economica della Repubblica italiana che non ne dia conferme in un numero infinito di sue analisi tecniche e elaborazioni statistiche, ma ciò non di meno ci tocca di sorbirci le lezioncine stucchevoli, oltre che false, dei Fontana e dei Zaia, Governatori di Lombardia e Veneto, per noi in arte il “Gallo” e il “Paglietta”. L’operazione verità si abbatterà sulle loro schiene con la forza dello scudiscio della verità e li farà ritrovare curvi e derisi di fronte alle loro comunità che si renderanno conto, per la prima volta, di essere stati presi in giro dallo “statista di Varese” e dal “doge Veneto”.
Questa operazione verità, frutto delle nostre inchieste giornalistiche, serve all’Italia intera e può essere la concreta base culturale di una svolta di politica economica nazionale che metta al centro gli investimenti produttivi e le infrastrutture di sviluppo a partire dal Mezzogiorno. Antonio Misiani, indicato dal Pd per la guida dell’Economia, un bergamasco doc che si inserisce nel solco nobile dei Marcora e dei Bassetti e non ha alcun timore a dire che Fontana e Zaia fanno demagogia e disinformazione, ha voluto condividere e elaborare questa strategia dalle colonne del Quotidiano del Sud. Ci piacerebbe tanto che un’ipotetica coppia di governo tra il foggiano Conte e il bergamasco Misiani facesse rivivere i fasti della stagione dei Menichella e dei Di Vittorio, originari di Biccari e di Cerignola, due Comuni appunto del foggiano, e del trentino De Gasperi e del siculo-valtellinese Saraceno. Forse, stiamo andando oltre, ma di queste aperture economiche che recuperano una regia centrale e chiudono la stagione dei regionalismi feudali e/o “delinquenziali” il Paese tutto ne ha vitale bisogno, e di questo comune sentire nella diversità delle storie personali entrambi sono espressione.
Ma perché un Conte bis, mi continuano a chiedere, quando in tutti i suoi editoriali ha sostenuto la necessità di assicurare al Paese un timoniere internazionale, una figura che la cancelliera Merkel e mister Trump sanno chi è, che gode della stima e del rispetto del mondo? Anche qui, la risposta è semplice: qualcuna delle forze politiche interessate, Partito democratico, Cinque Stelle, Leu, ha trovato la forza di chiedere pubblicamente a Mario Draghi, l’uomo che dalla tolda della Banca Centrale Europea ha salvato l’euro e che oggi è la faccia dell’Europa nel mondo, di fare un sacrificio per il bene del Paese? Qualcuno di questi partiti lo ha chiesto a Prodi, l’unico presidente della Commissione europea con Delors che resterà nella storia dell’Europa per avere promosso l’allargamento ai Paesi dell’Est sottraendoli all’influenza di Putin nonostante sia stato proprio lui, come con l’Ulivo, a riaprire i giochi lanciando la cosiddetta formula Ursula? Non mi pare.
Allora, dico: chi se non Conte che, per ben due volte, ha evitato la procedura di infrazione all’Italia, dimostrando con i fatti, di non condividere le pulsioni sovraniste e dilettantesche di Salvini e dei suoi seguaci, facendo di testa sua e difendendo le ragioni dell’interesse nazionale? Chi se non Conte che nel discorso di chiusura del suo mandato di governo ha mostrato rispetto nei confronti della regola che diventa sostanza e di un ancoraggio maturo alla tradizionale collocazione europeista e transatlantica dell’Italia? È vero o non è vero che Conte si è distaccato progressivamente, nel fare non nel dichiarare, dalla politica-spettacolo e dalle degenerazioni peroniste di Salvini, e che non gliene ha risparmiata una alla sua presenza, a Palazzo Madama, con un linguaggio durissimo, ma sempre coraggiosamente istituzionale?
Voglio essere chiaro fino in fondo: vi sentireste più garantiti da un premier come Luigi Di Maio, tenuto al guinzaglio da Salvini, o da un professore di diritto di cultura internazionale che si muove nell’ambito della storia italiana, in stretto contatto con la saggia regia del Quirinale, e che ha conquistato in poco tempo la stima dei principali player globali? Su questo punto, siamo stati ancora più trasparenti fin dall’inizio, le ipotesi possibili sono tre: Draghi, Prodi, e l’aspirante statista, Giuseppe Conte. Nei primi due casi si va sul sicuro, nel terzo si può scommettere, si resta in partita, si assume un rischio calcolato nella situazione politica data, ma si può vincere la partita e guai a chi, tra un giochetto e l’altro, si muove con la leggerezza di chi dimostra di non avere chiara la dimensione qualitativa e quantitativa della partita internazionale in gioco.
C’è bisogno di una mano ferma sul timone che eviti al barcone italiano di finire rovinosamente sugli scogli, lo abbiamo detto più volte e lo ripetiamo oggi. Perché questi sono i fatti, e questi fatti sono ineliminabili, con essi siamo ovviamente costretti a misurarci. Con Conte al timone, una squadra di ministri finalmente all’altezza, la convinzione condivisa di partecipare a un grande progetto politico, ci si può provare. Altrimenti siamo su scherzi a parte e non voglio nemmeno immaginare i danni alla credibilità internazionale italiana che potrebbe arrecare una campagna elettorale al calor bianco, dove ancorché acciaccato nel suo mito da social network a menare le danze e a fare da mattatore sarebbe ancora una volta Salvini e il suo disegno sovranista-lepenista che conduce l’Italia all’isolamento in Europa e il Paese intero a una marginalità e a una povertà, da extra costi di vaniloquio, che davvero non merita. Si sfrutti piuttosto il tempo dato dal Colle, quello giusto, per misurarsi con le ragioni programmatiche della sfida politica nuova che si ha davanti. Si interroghino senza pudori le rappresentanze parlamentari grilline e accettino la sfida di contenuti complessi. Escano per sempre le rappresentanze parlamentari democratiche dai tatticismi e dai giochi di potere correntizi. Se non si vuole rimettere in gioco il Ribaldo bisogna che l’azione di governo sia di lungo termine, spenda il credito ricevuto in Europa perché non venga a chiederci nuove tasse, si prema l’acceleratore sulle infrastrutture di sviluppo nel Mezzogiorno, si avvii il ridimensionamento strutturale delle esperienze regionali, si investa sul capitale umano giovanile nelle scuole, nelle università, nella ricerca.
Bisogna dismettere un metodo e un linguaggio che non superano i 140 o i 280 caratteri, si deve avviare la seconda ricostruzione del Paese e è necessario, quindi, investire sulla competenza, l’intelligenza tecnica, il talento giovanile senza steccati tra cultura laica e riformismo cattolico. Bisogna evitare il baratro, coperto dall’ombrello monetario di Draghi, ma assolutamente reale; occorre fare in modo che gli italiani ritrovino la fiducia e comincino a vivere meglio. Da molto tempo in qua ci hanno provato in tanti a parole, ma non ci è riuscito nessuno. Se vogliamo un futuro degno per i nostri figli dobbiamo augurarci che l’esperimento diventi realtà e funzioni. Dipende (molto) da loro, ma un po’ anche da noi. Poi se la svolta avverrà, dipenderà quasi tutto da noi.
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