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Da venti anni sempre meno investitori esteri scelgono l’Italia. La vicenda Ilva, oltre a mettere a nudo l’emergenza industriale italiana, di sicuro contribuisce a ridurre la capacità attrattiva dei nostri territori. Non fa bene a un Paese che, per sua miopia, ha scelto di rinunciare a giocare la partita di player globale con la forza di tutto il sistema Italia per crescere come subfornitore più o meno di qualità di player globali essenzialmente tedeschi con aziende italiane prevalentemente piccole e medie del Centro-Nord. In questa vicenda c’è veramente di tutto: l’intreccio distorto tra industria e ambiente, tra politica, giustizia e amministrazione locale, l’irresponsabilità e gli atteggiamenti da rapina del colosso franco-indiano, la paura della firma tutta italiana per chi deve autorizzare lavori e sbloccare investimenti.

Sullo sfondo, però, c’è qualcosa di più profondo che viene da lontano e sconta l’assenza di una politica industriale. Anzi, per dirla meglio, l’abolizione del Mezzogiorno dagli investimenti pubblici per l’adeguamento delle infrastrutture, che sono il primo incentivo per attrarre investimenti privati duraturi, e la scelta di interrompere bruscamente la lunga stagione industrialista Italiana, Nord e Sud del Paese insieme, cominciata nel Dopoguerra e prolungatasi con successo nei decenni a venire. Il disegno della grande impresa pubblica, primo motore l’Iri, e delle grandi famiglie del Nord, primo motore la Fiat degli Agnelli, ha avuto sempre in mente di portare a competere in Europa l’Italia intera, avendo cioè alle spalle un Nord e un Sud produttivi che marciano insieme. Per capirci, prendiamo l’acciaio: c’era Genova, ma anche Bagnoli e Taranto. Oppure, prendiamo l’auto: ci sono Mirafiori, Grugliasco, Modena, ma poi arrivano Pomigliano d’Arco, Cassino, Melfi, la Val di Sangro e così via.

Dall’epoca d’oro in poi questo pensiero forte industrialista, un amalgama fatto di manifattura, infrastrutture, servizi, è andato via via scemando togliendo al Sud e scommettendo solo sul Nord dell’Italia integrato con il Nord dell’Europa. Negli ultimi venti anni è addirittura diventato la pietra filosofale di ogni ragionamento anche di medio lungo termine, potremmo dire strategico ancorché la parola contenga qualcosa di molto offensivo in questa distorta declinazione. I risultati della prolungata perversione strategica, messa a nudo dall’operazione verità condotta dal nostro giornale sulla ripartizione della spesa pubblica, sono l’Italia del Nord e l’Italia del Sud unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi. I danni futuri sono insiti in un’altra perversione che è quella di chiudere gli occhi su ciò che venti anni di dissennatezze hanno prodotto. Fino al punto che il record europeo di rischio frane e alluvioni in Europa appartiene al Mezzogiorno ma anche quando il maltempo flagella l’Italia i territori meridionali sono rimossi o catalogati come prodotto di corruzione e incapacità. A Venezia, che appartiene al mondo per la sua unicità e per la quale va ovviamente fatto tutto ciò che è necessario, nessuno rimprovera nulla. Nemmeno la madre di tutte le tangenti che va sotto il nome di Mose.


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