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Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio

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L’UNICO atto di politica estera che può fare il governo italiano, nel conflitto tra Stati Uniti e Iran, è quello di occuparsi della sua economia e di farlo, per la prima volta, con una logica da sistema Paese portando a casa risultati tangibili che ne rivalutino peso e ruolo nel Sistema europeo infiacchito.

Se prevarrà il primo scenario dei venti di guerra (rappresaglie a non finire) o il secondo (cessate il fuoco da realpolitik) non lo può dire con sicurezza nessuno. Quello che, forse, si può dire è che l’Europa conterà poco e noi zero in entrambi gli scenari. Il primo scenario sarebbe esiziale per l’economia mondiale: mercati angosciati, Borse in caduta, petrolio a 80 dollari, dopo la Grande Recessione. Domina la sfiducia contagiosa e genera una successiva, ulteriore, correzione dell’economia reale. L’Italia è il solito vaso di coccio, e i nostri buoni rapporti con l’Iran non servono a nulla, prendiamone atto e risparmiamo energie.

Il secondo scenario, come ci ricorda Fabrizio Galimberti, conviene a tutti e due. Conviene all’America, perché dopo questo primo scambio di droni e missili, gli Usa escono vincitori: l’uccisione di Soleimani è certamente più importante, dal punto di vista geopolitico, dell’attacco alle basi irachene-americane. Conviene all’Iran perché può dire di avere lanciato missili contro gli americani, e soddisfa così l’orgoglio nazionale. Soprattutto non conviene la guerra alla sua piccola, disastrata economia: non può buttare risorse spendendo in missili quando il prodotto interno lordo cala del 9,5% e la popolazione è stremata, non è disposta a continuare nei sacrifici. In questo caso tutto rientra nell’ordine (si fa per dire) e l’Italia si ritrova a fare i conti con i suoi problemi che sono quelli di prima della crisi. Diciamocelo: l’unica guerra globale che non cesserà mai è quella per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina e la partita si gioca sulla leadership dell’alta tecnologia. Prevede, da entrambi i contendenti, un brusco ridimensionamento dell’Europa come soggetto economico globale.

L’Italia se vuole contare qualcosa deve affrontare il suo problema sistemico che è il Mezzogiorno e smetterla di investire su un’alleanza che non è nient’altro che soggezione con il gigante tedesco affetto da senile fragilità. Bisogna affrontare e risolvere, con una logica nuova, i problemi strategici dell’Ilva di Taranto, della compagnia di bandiera e dell’eccesso di frazionamento della manifattura del Nord. L’Italia deve scegliere di recupera- re una dimensione nazionale infrastrutturale e industriale per rianimare il suo mercato interno e svolgere in Europa quel ruolo di Paese Fondatore che oggi le è negato per l’irrilevanza crescente della sua economia e la crisi di credibilità della sua classe politica. Su Ilva facciamo i conti con i francoindiani di ArcelorMittal e su Alitalia con i tedeschi della Lufthansa, anche qui c’è molto di simbolico.

Sono partite italiane ma a dare le carte non siamo noi. Occupiamoci di ricostruire il Sistema Paese e di unirlo con treni veloci, big data e intelligenza artificiale. Facciamolo senza vergognarci di pronunciare la parola Mezzogiorno e attuando l’operazione verità nella ripartizione della spesa pubblica. Questa è la vera sfida di politica estera italiana. Senza un’economia forte alle spalle possiamo solo fare le belle statuine nel mondo. Tanto vale restarcene a casa.


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