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Mario Draghi e Ignazio Visco

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Se sapremo cogliere noi italiani l’occasione del Recovery Plan facendo le riforme e spendendo bene quello che riceveremo solo a fronte di risultati concreti, il processo sulla strada di un’Europa federale proseguirà perché sarà chiaro a tutti che è interesse di tutti un’Europa più forte e coesa. Altrimenti quel processo si bloccherà e per tutti saranno guai. Per noi ancora di più che per gli altri. Perché non c’è dubbio che i benefici degli investimenti e delle riforme del nuovo Stato già messe in campo dal governo Draghi potranno essere particolarmente elevati in quei territori dove ci sono meno infrastrutture, la qualità dei servizi pubblici è meno soddisfacente, la spesa sociale è stata ingiustificatamente tagliata. Tutto questo, però, potrà avvenire a condizione che si investa sul capitale umano e si esercitino stabilmente i poteri di richiamo dello Stato ogni volta che i soggetti preposti deviano dal percorso autorizzativo e dagli impegni esecutivi assunti

L’Europa non ha commesso gli stessi errori che hanno segnato i suoi comportamenti in occasione prima della crisi finanziaria globale poi di quella successiva dei debiti sovrani. Perché questa volta, alle prese con il nuovo ’29 mondiale, l’Unione europea ha sospeso il Patto di stabilità e di crescita e ha favorito politiche espansive di ampia portata. La gravità della crisi, insomma, ha fatto superare dubbi e inerzie.

Adesso è evidente a tutti la necessità di disporre di una capacità di bilancio comune. Così come l’istituzione del programma Next Generation Eu (NGEU) testimonia la nuova consapevolezza europea del fatto che shock comuni richiedono l’utilizzo di uno strumento europeo in grado di affiancare la politica monetaria unica.

Tutto vero, ma siamo a metà del guado. Non siamo ancora alla capacità di bilancio comune. Non siamo ancora alla maturità di pensiero dei Fondatori europei che avevano visto molto più lungo di chi è venuto dopo di loro. Non c’è, per dire, la presa di coscienza che una risposta congiunta europea può essere necessaria anche nel caso di shock asimmetrici, per rafforzare le politiche nazionali di chi ha margini di manovra ridotti o per integrarle se l’azione dei singoli Paesi si mostra debole.

Ai tre uomini di confine che fecero l’Europa, De Gasperi, Adenauer e Schuman, non sarebbe sfuggito che le debolezze nazionali sono un pericolo per le cosiddette potenze nazionali e che la miscela non gestita di debolezza e di potenza sotto lo stesso tetto costituisce un rischio capitale per l’Europa intera. A chi ha ancora oggi le redini di questo processo incompiuto di Unione economica e monetaria, più precisamente non completato, questa sensibilità manca.

Bisogna lavorare ancora parecchio. Altrimenti potremmo contare già oggi su una capacità di bilancio comune, accompagnata dalla revisione delle regole per le finanze pubbliche nazionali, fondata sulla possibilità di una stabile emissione di debito europeo, a sua volta garantita da fonti di entrata autonoma. Invece non è così. Si raccolgono come Europa capitali sul mercato per finanziare il programma straordinario post pandemico, un piano Marshall al cubo chiamato NGEU, ma questi titoli di imminente collocazione non li si vuole chiamare eurobond anche se di fatto lo sono.

Soprattutto si rinuncia in modo miope a fornire ai mercati uno strumento finanziario europeo con elevato merito di credito che favorirebbe l’integrazione dei mercati dei capitali e la diversificazione degli intermediari europei.

È evidente che, se tutto ciò non avviene, l’euro non assume mai fino in fondo il suo ruolo di valuta internazionale. È evidente che così gli squilibri interni tra singoli Paesi e al loro interno si acuiscono perché i capitali defluiscono verso la Germania in quanto l’afflusso favorisce il bund tedesco e, cioè, il Paese più forte a discapito degli altri.

È evidente, in estrema sintesi, che non si realizza l’Europa federale che è quella che serve all’economia europea, alle sue imprese e ai suoi cittadini, per competere meglio nel mondo e vivere meglio in casa.

Viceversa se sapremo cogliere noi italiani, ancora di più degli spagnoli, l’occasione del Recovery Plan facendo le riforme e spendendo bene quello che riceveremo solo a fronte di risultati concreti, il processo sulla strada di un’Europa federale proseguirà perché sarà chiaro a tutti che è interesse di tutti un’Europa più forte e coesa. Altrimenti quel processo si bloccherà e per tutti saranno guai. Per noi ancora di più che per gli altri.

Questo lungo ragionamento è ai miei occhi la cifra autentica delle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e delimita il nostro perimetro di azione dove si deciderà che fine faranno le due Italie e l’Europa. Perché dimostra in maniera analitica che si gioca in Italia la partita del futuro dell’Europa. Perché segnala che questa partita, a sua volta, si gioca sul terreno scivoloso della riduzione dei divari territoriali che è la “priorità cruciale” del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr).

Si gioca, parliamoci chiaro, sul campo minato della ritrovata capacità di fare buona progettazione e buona esecuzione. Perché non c’è dubbio che i benefici degli investimenti e delle riforme del nuovo Stato già messe in campo dal governo di unità nazionale guidato da Draghi (semplificazioni, amministrazione, governance) e quelle in arrivo (reclutamenti e giustizia) entro fine giugno, potranno essere particolarmente elevati in quei territori dove ci sono meno infrastrutture immateriali e materiali, dove la qualità dei servizi pubblici è meno soddisfacente, dove la spesa sociale in scuola, ricerca e sanità è stata ingiustificatamente tagliata.

Tutto questo, però, potrà avvenire a condizione che si investa sul capitale umano e si esercitino stabilmente i poteri di richiamo dello Stato ogni volta che i soggetti preposti deviano dal percorso autorizzativo e dagli impegni esecutivi assunti. Si faccia tutto quello che si deve fare perché i 200 e passa miliardi collocati finalmente in un quadro organico di interventi che ripercorre, attualizzandola, la coerenza meridionalista degasperiana, vengano spesi bene nei tempi preventivati.

Il metodo Draghi – decidere, mediare, decidere – è quello che ci vuole perché ritorni uno Stato che favorisca gli investimenti, non che estenda i suoi territori. Che consenta di favorire un contesto ambientale digitale, di transizione ecologica, di reti veloci e di logistica portuale, che permetta al Paese di riunire le due Italie non dove stava prima la parte migliore ma facendo tutte e due le parti insieme uno scatto in avanti non con i sussidi, ma dando alle imprese e al capitale giovanile il contesto necessario per esprimersi al meglio.

Servono coesione e condivisione. Serve il “mosaico” del nuovo Stato dove tutte le componenti si muovono in armonia perché sanno finalmente dove andare e possono assumere le persone capaci di realizzare l’obiettivo comune della Nuova Ricostruzione.


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