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La regola della spesa primaria del bilancio pubblico della nuova governance europea agisce al netto di interessi e stabilizzatori automatici a pressione fiscale invariata. Il punto è che in Italia pensioni, assistenza, sanità e stipendi sono più della metà del bilancio e la nuova regola impedirebbe quelle perequazioni automatiche che già oggi sono insufficienti e determinano quasi un punto in più di spesa rispetto al nuovo vincolo legato al rientro del debito. Per riequilibrare territorialmente i servizi e tutelare gli investimenti bisogna dare seguito alla operazione verità del duo Meloni-Fitto facendo piazza pulita delle marchette varie e recuperando decine di miliardi di spesa effettiva. Altro che autonomia differenziata!

Sulla nuova regola della spesa inserita nelle bozze di lavoro del nuovo patto europeo di stabilità e crescita il riserbo è assoluto. Questa regola incide sulla dinamica dei bilanci nazionali ponendo un tetto alla loro espansione sulla base dei dati di una media temporale.

Anche i pochi che ne parlano continuano a sottolineare che ogni riferimento riguarderebbe sempre e solo la spesa primaria e, cioè al netto degli interessi che paghiamo sul debito, facendo finta di ignorare che per noi è già così e che peraltro non è chiaro se il vantaggio riguarderebbe solo lo stock iniziale di spesa per interessi o anche quelli a venire. Il punto chiave nuovo per l’Italia è che si discute di porre un tetto alla crescita della spesa collocato a un massimo dell’1,6% annuo frutto di una media di lungo termine mentre noi già oggi cresciamo del 2,5%.

Ovviamente al netto degli interessi e degli stabilizzatori automatici oltre che a pressione fiscale invariata. Il ragionamento di base è che è vero che per fare scendere il debito rispetto al prodotto interno lordo (Pil) di un Paese la via maestra è la crescita, ma tenere sotto controllo la spesa pubblica primaria è un cammino parallelo ugualmente importante da percorrere. Insomma: la spesa primaria non potrebbe crescere più di un certo ammontare. Il punto è che in Italia pensioni, assistenza, sanità e stipendi rappresentano più della metà del bilancio pubblico nazionale e con l’inflazione che è tornata a salire questa nuova regola della spesa impedirebbe di fare quelle perequazioni automatiche che già oggi si fanno in modo insufficiente e determinano ai valori attuali quasi un punto in più di spesa rispetto al vincolo che la nuova regola imporrebbe.

Le perequazioni fabbricano spesa, la sanità ha bisogno sempre di nuovi soldi, gli investimenti vanno fatti. Si capisce facilmente che questa nuova regoletta crea problemi di non poco conto. Forse il riserbo è assoluto proprio per questo. Forse perché tutto il dibattito sul nuovo patto di stabilità e crescita europeo, anche sul piano interno, è pressoché integralmente assorbito dalle preoccupazioni italiane che riguardano piani nazionali di rientro sul debito pubblico concordati con la Commissione europea. Si tratterebbe di piani meno irrealistici del vecchio rapporto debito/Pil al 60%, ma proprio per questo più pericolosi. Perché se costruiti su misura dei singoli Paesi, diventano di conseguenza più cogenti, verificabili e forieri di sanzioni in caso di inadempienze.

Forse perché un altro elemento che catalizza questo dibattito a livello europeo e ancora di più in casa nostra è quello che riguarda la possibilità di escludere gli investimenti pubblici produttivi da questi conteggi come è assolutamente giusto se non si vuole ricadere negli errori strutturali di politica economica e monetaria commessi dall’Europa sia con la grande crisi finanziaria sia con la prima fase della grande crisi dei debiti sovrani.

Fatto sta che con il bilancio pubblico italiano i margini di manovra saranno sempre più ristretti. Per questo quando si parla con qualche leggerezza di troppo di autonomia differenziata dicendo “fissiamo i livelli essenziali di prestazione (Lep) e eleviamo i livelli di servizi del Sud all’altezza di quelli migliori del Nord” non si può non andare a sbattere contro il muro della nuova regola della spesa fissata a livello europeo. Il rischio concreto è che dovendo procedere nella cosiddetta autonomia differenziata con la regola di invarianza di bilancio sancita nella proposta di legge Calderoli si creino ulteriori differenziali tra Sud e Nord perché con la possibile compartecipazione alla dinamica del gettito regionale si avvantaggerebbero solo Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

Con venti autonomie differenziate e i nuovi vincoli europei di bilancio si avrebbero difficoltà anche a determinare il Pil nazionale, a garantire la sostenibilità del debito e le spese indifferibili per la giustizia e la difesa, gli standard già oggi insufficienti per la spesa sanitaria e previdenziale, il riequilibrio necessario di flussi pubblici tra aree metropolitane e interne dello stesso Nord. Adesso, forse, sarà più chiaro a tutti l’importanza cruciale dell’operazione verità su tutti i fondi europei voluta dal ministro Fitto e della nuova governance centralizzata con semplificazioni e poteri sostitutivi approvata giovedì per decreto.

Siamo davanti allo scandalo di pagamenti che oscillano dall’11,7 al 13,2% dell’impegnato totale per il Fondo di sviluppo e coesione del 2014/2020 con Regioni del Nord che riescono a fare anche peggio di Regioni del Sud smentendo luoghi comuni stereotipati. La verità è che solo un modello tipo Cassa di Pescatore, come quello voluto dal duo Meloni-Fitto allungando di molto il passo tracciato dal governo Draghi, può restituire al Paese la possibilità di fare spesa produttiva capace di generare fino a dieci punti di Pil e destinare decine di miliardi prelevati dal marchettificio dei progetti sponda per ridurre le distanze nei servizi essenziali tra le due Italie. Così è se vi pare, direbbe Pirandello. Che vuole dire che è così anche se non vi pare


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