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Niente da fare, bisogna dire che stiamo tornando ad essere quelli della lunga stagnazione. Ricordate le previsioni di primavera di uno dei centri studi più blasonati che prevedevano una crescita del Pil nel 2022 dell’1,9% e siamo finiti nonostante il gufismo depressivo incorporato al 3,7% facendo meglio dei grandi in Europa e di Stati Uniti e Cina? Non cambia nulla, tutti continuano a fare l’elenco dei guai reali mondiali e non vedono il miracolo italiano cercando di privarlo di quella fiducia che ne è il motore. Nel Def avremo un deficit/Pil al 4,5% e un debito/Pil al 142,1% programmatico e tendenziale al 142 secco. È così difficile accettare l’idea di un profilo reale sapendo che ora va bene e che dopo potrà scendere? O bisogna, per forza, pagare ora il costo anticipato di quello che non si sa se mai verrà dopo?

L’Italia è il Paese che sta facendo meglio di tutti in Europa per il terzo anno consecutivo. Nel 2022 ha fatto anche meglio di Cina e Stati Uniti. Per uscire dalla lunga stagnazione la fiducia è cruciale e l’ormai cronico cortocircuito dei centri studi previsionali italiani svolge un ruolo molto dannoso perché va a incidere proprio su quella fiducia che è cruciale. Ne mina pericolosamente le aspettative e, in alcuni casi, integra comportamenti da attentato al bene comune. Per capirci, il mondo è già pieno di insidie e, se non vogliamo interrompere il desiderio che lo stesso mondo continua ad avere di Italia, tutto possiamo fare meno che metterci a giocare con la fiducia in casa con i soliti gufi e a fare pasticci in Europa su alleanze e scelte strategiche. Questi pasticci fino ad ora non si sono visti. Non fabbrichiamoli noi.

A nostro avviso la previsione di crescita dell’ 1% per quest’anno contenuta nel Documento di economia e finanza (Def) che oggi verrà approvato in sede di Consiglio dei ministri è sbagliata per difetto. Si marcia verso una crescita di un punto e mezzo di Pil che dopo i circa undici dei due anni precedenti segnalano una crescita da nuovo miracolo economico e da locomotiva europea. Al ministero dell’Economia lo sanno bene e se ti capita di avere qualche conversazione con donne e uomini di azienda manifatturiera, agroindustriale, commerciale, artigianale, soprattutto di servizi e culturale, da Nord a Sud, te lo sbattono in faccia con soddisfazione, nemmeno più con sorpresa.

Nel Def, però, bisogna scrivere più 1% se no l’Ufficio Parlamentare del Bilancio (Upb) non ti convalida il quadro macroeconomico e il gufo per eccellenza di tutti i gufi italiani ritiene prudenzialmente che non si faranno le riforme e gli investimenti del Pnrr e ne fa discendere un danno certo immediato all’economia italiana e alla sua capacità reale di investire, spendere, conquistare mercati nel mondo, attrarre capitali e turisti dal mondo a ciclo continuo.

Niente da fare, da tre anni siamo i migliori, ma bisogna dire che stiamo tornando ad essere quelli di prima, quelli della lunga stagnazione. Ricordate le previsioni di primavera di uno dei centri studi più blasonati che prevedevano una crescita del Pil nel 2022 dell’1,9% e siamo finiti nonostante il gufismo depressivo incorporato al 3,7% facendo meglio di tutti in Europa e meglio di Stati Uniti e Cina? È successo qualcosa? Qualcuno di loro ha chiesto scusa? No, non cambia nulla, tutti continuano a fare l’elenco dei guai reali mondiali e non vedono il miracolo italiano provando in tutti i modi a privarlo di quella fiducia che ne è il motore. Nel Def avremo un deficit/Pil al 4,5%, che consente un margine di tre miliardi, e un debito/Pil al 142,1% programmatico e tendenziale al 142 secco.

È così difficile accettare l’idea di fare un profilo reale dell’economia italiana sapendo che ora va bene e che dopo potrà scendere e ne prenderemo atto? O bisogna, per forza, pagare ora il costo anticipato di quello che non si sa se mai verrà dopo? Il desiderio di Italia da parte del mondo non accenna a diminuire, anzi i flussi turistici in arrivo collezionano di mese in mese nuovi record, tutti i servizi sono esplosi. La Germania non va bene ma non crolla e preserva, quindi, la nostra quota di esportazione in un’economia che vale il 30% dell’economia europea.

A tutto questo si aggiungano le performance da primato assoluto delle nostre esportazioni sui Paesi extra Ue, un andamento dell’agroindustria che cresce del 18% sul record storico dei 61 miliardi di export dell’anno scorso, e una ripresa di posizionamento strategico internazionale del Sud Italia come hub energetico e manifatturiero del Mediterraneo unito a uno sviluppo sbilanciato che ha in Napoli la capitale ma produce eccellenze e innovazione in tutte le regioni meridionali. Tutto questo è al netto di un mix tra investimenti pubblici, privati e riforme che, con Pnrr e buon utilizzo dei fondi europei, può produrre un punto di Pil in più per trent’anni. Tutto ciò non si vuole vedere. Perché?

Questa è la realtà dell’economia italiana di oggi che nessuno colpevolmente dice sulla quale gravano due incognite internazionali da non sottovalutare. 1) La guerra che non finisce nel cuore dell’Europa produce incertezza permanente e scoraggia gli investimenti globali; 2) La spaccatura tra i Paesi emergenti, Cina e India, e i Paesi avanzati non si può mantenere a lungo, si deve trovare un modo di avere relazioni stabili su valori diversi e serve molta diplomazia economica che purtroppo non c’è. Sono due passaggi cruciali che l’Italia può affrontare e superare solo se preserva la sua fiducia interna e incrementa il suo ancoraggio europeo con i Paesi Fondatori e con l’esercizio di un ruolo guida. Tutto il mondo e, quindi, anche noi facciamo i conti con questa idea di trasferire in massa produzioni di manufatti tecnologici, semi lavorati e così via da un capo all’altro del mondo.

Alla fine quello che resta è un rischio di cooperazione: perché l’Occidente ha troppo pochi abitanti rispetto ai circa otto miliardi di popolazione mondiale. Si rischia seriamente di atrofizzare le relazioni globali e le nostre dichiarazioni – molte, non tutte – sono di natura autarchica. Fare crescere i nostri settori industriali e i nostri servizi è giusto, ma l’idea di chiudere le economie e di non accettare lo scambio alla lunga è negativo. Il rischio di rimanere isolati rispetto a Francia e Germania per noi è reale, ma è proprio ciò che non deve accadere. Noi dobbiamo stare lì perché l’Europa è stata costruita per rimanere attaccata al sistema franco-tedesco, ma in quel sistema c’è al centro l’Italia, non la Spagna, non altri. Per lo meno dipende da noi. Perché questa è la nostra posizione strategica internazionale obbligata.

Per capirci, è bene ripeterlo, il mondo è già pieno di insidie e, se non vogliamo interrompere il desiderio che lo stesso mondo continua ad avere di Italia, tutto possiamo fare meno che metterci a giocare con la fiducia in casa con i soliti gufi e a fare pasticci in Europa su alleanze e scelte strategiche. Questi pasticci fino ad ora non si sono visti. Non fabbrichiamoli noi.


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