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Sembra che in questo paese l’unico problema sia verificare se il governo Conte cadrà o meno. Così molti possono dirsi tranquilli, o rammaricati (dipende dalle collocazioni), perché constatano che in definita una maggioranza parlamentare per andare alle elezioni anticipate non si trova. Ci si dedica anche alle previsioni più astruse: se, come sembra, ci sarà il referendum su iniziativa dei 64 senatori circa la legge taglia-poltrone, questo rende difficile il ricorso alle urne, perché difficilmente il Quirinale permetterebbe una consultazione con le regole pre-riforma che sarebbero definitivamente affossate pochi mesi dopo delegittimando un parlamento eletto con quelle.

Il fatto è che la situazione di stallo non agevola un chiarimento nelle forze di maggioranza che comunque alle elezioni dovranno andarci, perché si voterà in otto regioni (importanti) e in più di mille comuni. La conseguenza di questa situazione è che tutti, ma proprio tutti sono spinti ad arroccarsi in pseduo-identità di maniera, quelle che si trovano cucite addosso dal circo mediatico e che però nessuno sa davvero se rispondano a ciò che pensano gli elettori.

La piccola novità di ieri è l’incontro che si è avuto fra Zingaretti e Di Maio.

Cosa si siano detti davvero non lo sappiamo, ma almeno il PD ha mostrato di voler andare a vedere qualche carta in mano all’elemento ingovernabile di questa stramba coalizione di governo. Si deve sperare che il complicarsi della situazione internazionale abbia convinto il gruppo dirigente dei Democratici che gli spazi per un rallentato gioco di smontaggio delle impuntature pentastellate si sono azzerati.

IN PIEDI PER LA PAURA

Un governo che sta in piedi solo per paura che altrimenti Salvini vinca le elezioni e per consentire ad un po’ di classe politica di godere ancora di qualche anno di stipendio prima che la riduzione dei parlamentari e i sommovimenti dell’opinione pubblica la rimandino a casa non sarebbe degno del nome di governo.
Perché i problemi del paese sono tanti e complicati e se non siamo in grado di affrontarli davvero c’è il rischio di finire come la Grecia. Il nostro direttore l’ha denunciato ieri e davvero c’è da riprendere un’altra sua famosa frase detta in altro contesto: fate presto! Il tempo del giacobinismo antipolitico si è già esaurito. Le invettive personalizzate contro i Benetton, trasformati in un’icona del demone capitalista come si fece cogli Agnelli nel 68, sono cose senza senso. L’imposizione di una normativa sulla prescrizione che tutti i costituzionalisti degni di questo nome spiegano essere fuori dell’ottica della nostra Carta fondamentale è una scelta incomprensibile in uno stato di diritto.

MINISTRO DEBOLE

L’Italia ha il problema di attrezzarsi a fronteggiare quella che potrebbe essere una nuova crisi economica innescata dal precipitare degli equilibri in Medio Oriente. Nulla è detto, ma nulla può essere escluso, tanto instabili sono le situazioni in quell’area e tanto numerosi sono gli attori che possono accendere le micce che attivano una delle tante mine sepolte in quei terreni. In queste situazioni il paese non ha bisogno di un governo che stia in piedi perché si ha paura di quel che succederebbe con una sua caduta. Ci vuole un governo che abbia due caratteristiche fondamentali: che sia credibilmente autorevole e che sia in grado di agire.
La prima di queste caratteristiche non è così semplice da conseguire, se come ministro degli esteri abbiamo non solo una figura intrappolata nel compito di tenere insieme il suo partito, ma poco fornita delle competenze necessarie per gestire quel ruolo. Per di più quel ministro non può neppure contare su qualche buon sottosegretario del suo gruppo o su qualche esponente che sappia come si trattano argomenti così delicati. Tutte cose che pesano, eccome, nelle sedi internazionali in cui l’Italia deve muoversi in una partita che non può assolutamente giocare da sola.

PREMIER

Certo c’è l’illusione che le debolezze del populismo di governo possano essere compensate da un premier che sa muoversi con il necessario aplomb nei consessi internazionali. In fondo non era andata così anche nel Conte 1? Ma qui arriva al pettine il nodo della seconda caratteristica: che autorevolezza può avere un premier che è ridotto al compito del sintetizzatore delle impuntature dei suoi partner di governo e che non è in grado di mettere in campo una solida azione di politica economica?

CONFRONTO EUROPEO

Conte deve misurarsi in ambito europeo con due interlocutori del peso di Germania e Francia, due poteri che puntano a tenere insieme per quel che si può la UE, ma che hanno anche strategie di ampliamento dei loro spazi, cosa per loro essenziale per riuscire efficaci nel loro posizionamento. L’Italia si trova in una situazione di debolezza che può solleticare quelle ambizioni: sarebbe bene tenerne conto, senza farsi irretire dai sovranismi da operetta di tanti personaggi che la politica internazionale sembra l’abbiano imparata giocando a Risiko la sera di Capodanno.

Il premier fa filtrare sulla stampa una complicata tattica in quattro tempi per arrivare ad un mitico cronoprogramma che lo porti fino alla scadenza della legislatura.

Siamo sempre nell’ottica politicista della tradizione italiana che pensa che i problemi si sciolgano con vertici, contratti, preamboli e quant’altro del genere, tutta roba da gestire nel chiuso delle conventicole dei partiti. Si imparasse invece che i tornanti complicati della vita di un paese si affrontano riuscendo a compattare la sua gente e le sue intelligenze migliori piuttosto che i professionisti dei vertici e delle dichiarazioni (una volta alla stampa, oggi su facebook).

Il presidente Mattarella lo ha detto con una certa chiarezza nel suo discorso di fine d’anno e meriterebbe un ascolto che al momento non vediamo.


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