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Giuseppe Conte

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Viviamo tempi eccezionali. Servono risposte eccezionali. Primo. C’è un errore strategico che non possiamo permetterci di ripetere e, per questo, va fatta un’operazione verità nella Conferenza Stato-Regioni. Che ha tagliato brutalmente gli investimenti pubblici nella sanità, nella scuola e nei trasporti per i cittadini meridionali. Riuscendo nel capolavoro di fare perdere al Nord produttivo un mercato interno di consumi che vale molto di più delle esportazioni italiane. Secondo. Per vincere la sfida del Recovery Plan bisogna puntare tutto sugli investimenti pubblici e attrezzare una macchina esecutiva capace di attuarli. Quella che deve cominciare è una storia nuova che parte dai diritti di cittadinanza negati e da un rinnovamento profondo della classe dirigente meridionale. La sintesi politica che serve al Paese è questa

Siamo in guerra. Non ne siamo ancora usciti, ma la politica italiana non cambia. Hanno solo imparato a fare riferimento più o meno tutti al dopoguerra per sottolineare che oggi come allora c’è l’esigenza di cambiare il Paese. Poi invece arriva una legge di stabilità che ci riempie di debiti per dare un pochino di euro a tutti e sembra più quella della anteguerra che del dopoguerra.

Ci mancano solo la processione del santo patrono o il teatrino di avanguardia, per il resto soldi proprio a tutti. Pochi, spesso ritardati, sempre a debito, ma a tutti. Siamo, purtroppo, impantanati tra la tattica e la comunicazione. Si insegue un fatuo consenso con un governo che spende e spande, ma sotto il coperchio gigantesco c’è una pentola a pressione pronta a esplodere perché i posti di lavoro in gioco sono circa cinque milioni.

Il rischio concreto se non si esce dalla logica dei costosi cerotti sono l’insurrezione nel Mezzogiorno e la grande crisi sociale italiana che consegnano venti milioni di persone a esplorare le frontiere della sotto povertà dopo quelle della povertà e gli altri quaranta milioni a conoscere le frustate della crisi finanziaria e l’uscita dal novero delle grandi economie industrializzate.

Parliamoci chiaro. Dove sono le poche grandi scelte che danno la direzione del cambiamento? Dove sono gli investimenti pubblici che vincono sui bonus e sugli incentivi? Dove e chi ha messo la faccia su un disegno di sviluppo che sostiene con la forza politica delle grandi coalizioni un Recovery Plan italiano che declini oggi la coerenza meridionalista del trentino De Gasperi negli anni del miracolo economico italiano in tutte le missioni strategiche dal green al digitale?

Ho posto ieri personalmente questo interrogativo al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella sua conferenza stampa di fine anno, e ha preso in pubblico alcuni impegni: la missione digitale avrà nella banda larga ultra veloce che partirà dal Sud e dalle zone interne del Nord un segno riconoscibile; così come i treni veloci nel Mezzogiorno continentale e insulare daranno sostanza all’altra area strategica che è quella del green; gli investimenti pubblici saranno “prepotentemente” presenti e rappresenteranno di fatto la bussola del piano.

Il Presidente Conte ha lodato la battaglia “lucida e passionale’ di questo giornale per il Mezzogiorno e gliene siamo grati, ma vogliamo ripagarlo con la consueta franchezza. Perché questa è la cifra del nostro modo di fare giornalismo. Perché questo richiedono la gravità della crisi pandemica e economica che insieme fanno il nuovo ’29 mondiale e il teatrino immorale della politica di casa nostra dove le marionette italiane recitano il solito copione e stufano anche quando hanno ragione. Allora vogliamo essere ancora più chiari del solito.

Punto uno. C’è un errore strategico che è la base del ventennio di decadenza del Paese. Questo errore strategico è avvenuto in un luogo nascosto della democrazia italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni dove a causa di un patto scellerato tra i Capi delle Regioni della Sinistra Padronale e della Destra a trazione leghista del Centro-Nord si è arrivati alla mostruosità di erogare 84,4 euro di investimenti pubblici nella sanità per ogni cittadino emiliano-romagnolo contro i circa sedici euro dati al cittadino calabrese e i poco più di venti al cittadino campano.

La stessa cosa più o meno è avvenuta per gli investimenti in conto capitale nell’istruzione e nella mobilità. Si è di fatto compressa oltre ogni decenza la spesa sociale e si è addirittura azzerata la spesa infrastrutturale. Un esempio per tutti: un treno veloce ogni venti minuti da Milano a Torino, nemmeno uno all’anno tra Napoli e Reggio Calabria per non parlare della Sicilia.

Il risultato di questo capolavoro di miope egoismo è che il reddito pro capite di venti milioni di persone si è ridotto a poco più della metà degli altri quaranta milioni e il Nord produttivo ha perso un mercato interno di consumi che vale tre volte di più di tutte le esportazioni italiane. Questo è stato l’atto di morte non del Mezzogiorno, ma dell’economia italiana almeno per quello che è sempre stata all’interno dei grandi Paesi.

Presidente Conte, bisogna espugnare la Conferenza Stato-Regioni con atti concludenti. Non si può consentire a un manipolo di capi di stato ombra delle Regioni cosiddette ricche di usare il bilancio nazionale facendo male a se stessi e agli altri.

Perché questa abbuffata indebita di miliardi ha fatto crescere al Nord l’assistenzialismo, ha segnato la fine del grande capitale privato, e ha abbandonato il Mezzogiorno alla deriva della povertà togliendo all’Italia la leadership del Mediterraneo e dando vita al più clamoroso esodo di cervelli che abbia mai conosciuto un Paese occidentale. Uno spreco di capitale umano che condanna Sud e Nord. Presidente Conte, bisogna sporcarsi le mani con la battaglia dei diritti negati che sono la base costitutiva del declino italiano.

Punto secondo. Macchina esecutiva e investimenti pubblici. Sono l’altra faccia della stessa medaglia. Non è vero che non è stato fatto niente. Perché la scelta di fare Investitalia e di averla affidata nelle mani di un danese più romano dei romani prelevato dalla Bei, Lars Anwandter, va nella direzione giusta. Delinea un pezzo di amministrazione che cambia e si integra con altri pezzi vitali di amministrazione.

Non fermiamoci qui, l’obiettivo deve essere una struttura tecnica centralizzata che scelga il meglio dell’amministrazione che abbiamo in casa e che richiami da fuori figure chiave come ingegneri gestionali e informatici, semplificatori e uomini della finanza di impresa. Si deve respirare un’aria nuova che permette di ringiovanire l’amministrazione pubblica centrale e territoriale dimostrando che si possono avere i migliori e che si possono fare le cose. Ci vuole, insomma, molto più coraggio nella scelta degli uomini e nella capacità realizzativa dell’amministrazione italiana.

Bisogna sapere innovare e non fare sconti a nessuno proprio come fece la prima Cassa di Pescatore negli anni del miracolo economico. Si guardi ai ragazzi di talento che sono dentro Cdp, si guardi dentro la Bei, si cerchi tra i laureati in informatica gestionale all’Università della Calabria, si recluti nel mondo della finanza tra chi non gioca con le scatole dei derivati ma impegna il suo tempo a studiare il valore delle cose.

Sui contenuti, poi, ci vuole ancora più coraggio. Prima di tutto non è nemmeno pensabile che il 60% del Recovery Plan siano investimenti pubblici e il restante 40% siano incentivi. I primi incidono direttamente sul denominatore della crescita, i secondi no. L’Europa vuole i primi non i secondi. Per favore le solite manine dei tanti Capetti delle Regioni vengano tenute fuori da questo tavolo.

Gli investimenti pubblici, soprattutto quelli realizzati con il fondo perduto, devono riunire il Paese nelle infrastrutture immateriali e materiali e nella spesa sociale. Perché le prime sono decisive per creare condizioni di contesto indispensabili per recuperare competitività in tutti gli ambiti dell’economia non assistenziale. La seconda è decisiva non solo per ragioni di eguaglianza e, direi, di civiltà, ma ancora prima di crescita economica e di lotta effettiva alle diseguaglianze.

Perché non ci potrà mai essere, ad esempio, un vero turismo stanziale anche negli angoli più belli del mondo di cui è pieno il nostro Mezzogiorno se non daremo ai turisti un buon ospedale vicino casa, trasporti locali che funzionano e una buona offerta di treni veloci, un buon aeroporto internazionale e una banda larga ultraveloce che funziona ovunque a tutte le ore del giorno e della notte, un contesto educativo circostante che stimola e tranquillizza.

Questa è la doppia sfida cruciale che ha davanti a sé il Paese e si può vincere solo se gli egoismi miopi dell’ultimo ventennio verranno combattuti e sconfitti con la durezza necessaria. Non esistono scorciatoie e sarebbe bello che a prendere il toro per le corna mettendo le carte in tavola in Parlamento e guardando tutti negli occhi fosse il primo Presidente del Consiglio meridionale dopo un ventennio di guida Nord-centro della politica che ha emulato (non tutti allo stesso modo) i vizi di stagioni della politica dove erano i capi bastone dei partiti del Mezzogiorno a dettare legge. Anche qui sempre distinguendo e senza mai fermarsi alla superficie.

Quella che deve cominciare è una storia nuova. Che parta dai diritti di cittadinanza negati e da un rinnovamento profondo della classe dirigente meridionale. La sintesi politica che serve al Paese è questa. Il Presidente Conte ci metta la faccia e verifichi se è nelle condizioni politiche per attuarla. Altrimenti lasci. I compromessi non servono né a lui né al Paese.

Perché gli investimenti pubblici servono oggi, non domani, e i cambiamenti che non si fanno da venti/trenta anni vanno fatti oggi, non domani. A nessuno potrà più essere consentito di dire “siete stati zitti per una vita e ora volete tutto in un giorno”. Viviamo tempi eccezionali. Servono risposte eccezionali.


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