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Una manifestazione davanti al Ministero per lo Sviluppo economico: una donna con la maglietta di Mario Draghi

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In soli 14 mesi abbiamo fatto 500 miliardi di nuovo debito pubblico da qui al 2026. Il reddito pro capite medio italiano è il 26% in meno della media dei Paesi più sviluppati che sono i top player, la produttività è sotto del 17%. È ovvio che un disastro del genere non può essere fatto in un anno, la botta del Covid è pesantissima, ma noi facciamo i conti con venti anni di disastro italiano. Se ci liberassimo dalla cultura disgregatrice che ha prodotto questo disastro, scopriremmo dietro la cortina fumogena del talk della demagogia, dell’interesse elettorale dei partiti e dei diktat dei capipopolo regionali, che c’è una macchina esecutiva che in pochi mesi è stata rimessa sui binari giusti e aspetta solo di essere spinta. Per fare ripartire il Paese

TUTTI continuano a guardare il proprio ombelico. Ricevo le stesse telefonate con le stesse lagne corporative, non si parla mai dei problemi veri. Si sostituisce Conte con Draghi e giù la lagna, tutto normale. Loro si sentono appagati. Il Paese sprofonda. Il talk permanente italiano ripete il suo solito copione sul nulla. Aiuta tra rumori assordanti, un campionario a colori di demagogie di ogni tipo e una diffusa incompetenza, lo stesso Paese a rotolare giù nel burrone.

Il mondo ci invidia Draghi e, suo tramite, parla dell’Italia come di un grande Paese. L’ultimo endorsement viene dal New York Times. Il governo ha fatto le scelte giuste. Ha messo in sicurezza la macchina dell’emergenza e ha dato ordini chiari e uniformi sul territorio per gestire la campagna di vaccinazione. Ha mantenuto la parola con la riapertura delle scuole. Ha fatto un altro scostamento di 40 miliardi raddoppiando i sostegni e ha varato un fondo pluriennale di opere da 30 miliardi. È impegnato silenziosamente per fare un Recovery Plan che cambi la faccia del Paese, riunifichi le due Italie, produca effetti duraturi nell’ammodernamento della macchina pubblica e nella capacità di fare investimenti pubblici.

Per la prima volta si rivede e si può toccare la coerenza meridionalista di De Gasperi ma si fa finta di non crederci, si fabbricano manifesti e comitati di controllo. Si semina panico invece di mettersi sotto a fare le cose. Volevano tutti la bacchetta magica di Draghi che non esiste, ma nessuno vuole fare i conti con i propri egoismi e nessuno vuole cambiare nella testa per costruire insieme la partita del futuro. Siamo sull’orlo del baratro, abbiamo la persona giusta per tirarci fuori, ma nessuno si cura del baratro e, tanto meno, aiuta chi ci deve tirare fuori.

Allora, diciamo come stanno le cose. Abbiamo perso in un anno 8,8 punti di prodotto interno lordo, forse ne recupereremo la metà o poco meno quest’anno. Siamo gli ultimi in Europa e torneremo ai livelli pre Covid nel 2023 e tutti gli altri lo faranno un anno prima, ma il livello pre Covid che potremo raggiungere noi a fine 2023 è quello dell’unico Paese d’Europa che non aveva mai raggiunto i livelli pre-crisi del 2007. In soli quattordici mesi abbiamo fatto circa 500 miliardi di nuovo debito pubblico, per l’esattezza sono 497 autorizzati da qui al 2026. Abbiamo coperto tutto in deficit, anche le clausole di salvaguardia dell’IVA.

Siamo seduti su un cratere sociale di cinque milioni di posti di lavoro a rischio, di cui un milione già perso. Il 30% delle imprese è in vita solo grazie alle moratorie, insomma è attaccato alla bombola di ossigeno delle banche. Se scricchiolano le imprese poi scricchioleranno le banche. Il reddito pro capite medio italiano è il 26% in meno della media dei Paesi più sviluppati che sono i top player, la produttività è sotto del 17%. Altro che Paese del G7 o G8 che dir si voglia!

È ovvio che un disastro del genere non può essere fatto in un anno, la botta del Covid è pesantissima, ma noi facciamo i conti con venti anni di disastro italiano. L’Ocse ha messo nero su bianco che il Paese è bloccato da un federalismo disordinato che complica le procedure, confonde le responsabilità, moltiplica i costi degli investitori e è il principale responsabile delle disparità territoriali italiane.

Che fanno i Capi delle Regioni? Fanno un passo indietro? Chiedono scusa? La Regione Lazio che è stata una eccezione di efficienza nella campagna di vaccinazione mostra buon senso e propone di fare la macroregione del centro, ma le altre che fanno? Seguono l’esempio? Per carità, sono più ringalluzzite che mai e vanno ognuna per la sua strada. Ognuna con la sua piccola o grande Aria di sprechi e di inefficienze e, nel caso della Lombardia, con una superbia che fa muro su tutto, anche contro le accuse della Corte dei conti. Rendersi conto che servono regole comuni? Mettersi insieme e affidarsi a chi ne capisce più di loro? Prendere atto per una volta delle proprie responsabilità?

Per carità, i Capi delle Regioni imbandiscono la solita tavola dove chiedono di riaprire tutto e di fatto con le restrizioni fantasma di sempre. Siamo alla solita piccola Italia delle corporazioni regionali e di altro ancora, quell’Italia dove ognuno si fa scrupolosamente gli affari suoi. Come dire: l’Italia degli ultimi venti anni, una roba di corporazione trasversale diffusa in cui nessuno condivide l’interesse generale e tutti hanno molto chiara la visione dei propri singoli interessi e li perseguono.

Tutto ciò ha avuto la sua plastica prova nella vaccinazione delle categorie e degli amici degli amici di questa o quella regione. Ora ritornano alla carica con la stessa testa e con gli stessi metodi. Deve essere chiaro a tutti che con questo federalismo all’italiana è impossibile attuare il Recovery Plan. Non di certo perché ce lo dice l’Ocse, ma semplicemente perché è la pura verità. Con l’accordo sulla politica dei redditi del luglio del ’93, governo Ciampi, scattò la nuova concertazione e un modo di sentire comune. Il Paese rialzò la testa dopo la grande crisi del ’92. Non è scattato oggi lo stesso spirito nel nuovo patto per il pubblico impiego a palazzo Chigi con i sindacati nella stessa sala verde, perché mancano gli interlocutori di una volta. Tutto si è risolto in una cerimonia e in nuovi benemeriti concorsi pubblici perché anche gli attori istituzionali sociali non sembrano particolarmente consapevoli della sfida comune.

Siamo rimasti fermi a venti anni fa perché prigionieri di quella cultura disgregatrice che ci ha fatto rotolare in coda a tutte le classifiche e ha fiaccato la coscienza nazionale. Se ce ne liberassimo, potremmo scoprire che dietro la cortina fumogena del talk della demagogia, dell’interesse elettorale dei partiti e dei diktat dei capipopolo regionali, c’è una macchina esecutiva che in pochi mesi è stata rimessa sui binari giusti e aspetta solo di essere spinta. Che i vaccini arriveranno e se si farà come si è deciso a Roma, non nelle capitali delle rovina italiana, ricominceremo presto a correre. Se nemmeno Draghi riesce a farci uscire da questo torpore siamo messi davvero male. Perché non ci sarà purtroppo un’altra occasione.


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