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Mario Draghi

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Per questo Draghi, come sta facendo, deve sempre di più comunicare le scelte e la rotta perché mancano filtri interpretativi capaci di trasferire il messaggio partendo dalle scelte compiute. I mercati e gli investitori globali si fidano di Draghi. Facciano altrettanto i partiti politici italiani. Abbiano almeno l’intelligenza di capire che questo governo di unità nazionale può prendere quelle decisioni impopolari su giustizia, pubblico impiego e regioni che loro non vogliono o non sono capaci di prendere

Mi ha fatto piacere seguire Enrico Letta, segretario del PD, nella prima settimana di aprile a Porta a Porta.

Mi ha colpito favorevolmente sentirlo ripetere una cosa che i leader politici italiani dicono poco e che, purtroppo, forse nemmeno pensano. Ha detto, cito a mente, più o meno così: “Viviamo un momento storico unico” e “Abbiamo calato l’asso”. Si riferiva a Draghi e si riferiva alla scelta di Mattarella.

Ha aggiunto: “Io la vedo da fuori.” Per fare capire l’attenzione e l’aspettativa che questa scelta ha determinato a Parigi, dove lui ha vissuto per sei anni dirigendo la scuola politica internazionale di Sciences Po e, in genere, in Europa e nel mondo.

Soppesando queste parole Letta ha mostrato consapevolezza. Che non vuol dire che Draghi ha la bacchetta magica e che può fare miracoli. Che non vuol dire che il mondo si aspetta miracoli da Draghi e che gli italiani devono credere in questi miracoli. Che vuol dire un’altra cosa più sottile e profonda che è quella che, con Il Quotidiano del Sud, peraltro, in sostanziale solitudine, andiamo ripetendo dal giorno dell’incarico a Draghi.

La reputazione internazionale dell’uomo, non quella dell’Accademia ma quella delle cose fatte sul campo, tre parole (“Whatever it takes”) che hanno salvato l’euro e il primato della “politica” in Europa, fanno del grande italiano Mario Draghi il cittadino europeo più stimato nel mondo.

Questo, visto da fuori, ci fa capire Letta, carica tutti in casa di grande responsabilità perché se dovesse fallire il governo di unità nazionale voluto da Mattarella e guidato da Draghi il mondo si interrogherebbe su noi italiani e potrebbe arrivare a conclusioni poco rassicuranti. L’ho detto e lo ripeto. Potrebbero essere in molti a ritenere che “se non c’è riuscito neppure Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile”.

Questa consapevolezza, a mio avviso, manca del tutto o parzialmente negli azionisti politici della larga maggioranza che sostiene il governo Draghi, legittimamente scompare e per fortuna a volte riappare sorprendentemente nell’unica forza di opposizione che è Fratelli d’Italia e nelle parole di Giorgia Meloni.

Questo tipo di ragionamento di contenuto, che lo porta coerentemente a lodare sui fatti ministri non del suo partito e a invitare tutti a uscire dalla logica “questo è merito mio, questo è merito tuo”, Letta poteva farlo solo a Porta a Porta perché è l’unica trasmissione serale del talk permanente italiano che ha preservato un ancoraggio solido al racconto dei fatti e al confronto di merito su di essi.

Siamo arrivati, come dico dalla prima pagina di questo libro, alla carta estrema Draghi anche perché questa compagnia di giro autoreferenziale mediatica ha continuato a ballare e cantare sulla tolda del Titanic Italia anche nelle fasi più delicate della crisi di governo e non riesce a uscire da questo spartito dell’irrealtà che è un misto di politichese e di carnevale dell’incompetenza neppure nei giorni del ’29 mondiale italiano.

Fa paura doverlo constatare ma è il punto massimo della malattia sistemica italiana. Perché in questa agorà televisiva e social che a causa del lockdown entra stabilmente nel salotto italiano e influenza la pubblica opinione, la consapevolezza del momento storico unico di cui parla Letta è assente in misura addirittura superiore a quanto manchi a molti degli azionisti della maggioranza politica che sostiene il governo Draghi. Il talk italiano compete con l’ego ipertrofico dei capi e capetti delle regioni italiane alla guida del circolo perverso dove la propaganda vince su tutto. Anche sulla vita delle persone. Anche sui morti in economia.

C’è un tema emerso di dinamite sociale e di vulnerabilità del paese Italia dentro una transizione europea e globale che incide sui bisogni delle persone e cambia la democrazia a partire dalle sue forme espressive.

Questo tema complicato che affonda le sue radici nel ventennio della crescita zero, che è il frutto avvelenato del federalismo della irresponsabilità, esige conoscenza dei fatti di ieri e di oggi e deve parlare alla testa e al cuore degli italiani per mobilitare le coscienze e sostenere lo sforzo di cambiamento che il governo Draghi deve saper realizzare. Guardando all’interesse complessivo, come avrebbe detto Andreatta che può essere un riferimento culturale importante del Letta di oggi.

Mi permetto, però, di avvisare anche lui che non sarebbe più sufficiente il solido impianto teorico del professore trentino-bolognese perché oggi c’è bisogno di un’empatia collettiva che permetta di riconoscere e fare propria la verità. Altrimenti la nuova ricostruzione non ci sarà e il paese quasi senza accorgersene avrà sprecato la sua grande occasione.

Per questo Draghi, come sta facendo, deve sempre di più comunicare le scelte e la rotta perché mancano filtri interpretativi capaci di trasferire il messaggio partendo dalle scelte compiute. Così come Letta fa bene a citare don Milani: non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diseguali. E fa bene, come ripete spesso, a riferire questa citazione alle donne e alla parità di genere mancata in Italia.

Si ricordi una volta sì e una volta no di riferirla anche al Mezzogiorno del paese perché il PD avrà finalmente una dimensione strategica e un futuro se dimostrerà con l’azione, non a parole, che i poveri vengono prima dei ricchi. Appena si ambienterà un po’ di più si accorgerà Letta che o fa i conti con la sinistra padronale che ha piegato ai suoi miopi interessi il più irresponsabile dei federalismi, che è quello italiano, e che ancora domina nel partito, o la sua scommessa sarà persa in partenza.

A lui non basterà la consapevolezza del momento storico unico per cambiare le cose. Al Cavaliere bianco bisogna augurare una lunga stagione alla guida del paese in ruoli diversi. Prima la supplenza politica di governo breve ma efficace, tale cioè da produrre effetti duraturi. Poi la fase istituzionale alla testa della Repubblica italiana per essere uno stabile punto di riferimento: in casa dentro un assetto istituzionale rinnovato che consenta di decidere, e fuori di casa perché l’Italia sparisca del tutto dai mercati come problema, grazie alla credibilità sua personale e ai risultati che quella credibilità garantisce.

Il maxi-piano americano finanziato con emissioni a raffica del titolo sovrano statunitense ha messo in fibrillazione il Brasile alle prese con una pandemia fuori controllo e la Russia che rischia una crisi di liquidità; l’Italia non è entrata nemmeno di striscio in questi giochi pericolosi. I mercati si fidano di Draghi e lo aspettano al varco. Facciano altrettanto i partiti politici italiani. Abbiano almeno l’intelligenza di capire che questo governo di unità nazionale può prendere quelle decisioni impopolari su giustizia, pubblico impiego e regioni che loro non vogliono o non sono capaci di prendere.

Si rendano conto che sono tutti seduti su un cratere sociale che può mandare in fumo cinque milioni di posti di lavoro dalla sera alla mattina. Siano consapevoli che l’attuazione del Piano vaccini nei tempi prestabiliti e la coerenza meridionalista degasperiana del Recovery Plan italiano nella riduzione degli squilibri della spesa sociale e nella realizzazione di infrastrutture di sviluppo immateriali e materiali non possono rimanere ostaggio del solito immorale mercanteggiamento dei capi delle regioni del Nord. Piuttosto che continuare a fare propaganda i partiti diano una mano.

La politica italiana deve aiutare Draghi a ripetere in Italia ciò che ha già fatto in Europa. A risolvere i problemi creati proprio dai pasticci dei partiti, in particolare a livello regionale. Poi si potrà tornare a competere per la guida del paese. Solo così, questa breve stagione di supplenza politica può superare l’emergenza del nuovo ’29 mondiale. Può ridare all’Italia un ruolo geopolitico nel Mediterraneo sfruttando il “momento unico” della Libia e l’impronta riconosciuta del nuovo multilateralismo con l’autorevolezza personale di Draghi alla guida del G20. Può ricostruire un aspetto fondamentale della democrazia italiana restituendo al paese il diritto di avere delle proposte di classi dirigenti fra di loro non componibili ma entrambe più inclusive. Può fare dell’Italia un paese normale.

(*) estratto dalle conclusioni del libro “Mario Draghi Il ritorno del Cavaliere bianco”, edito da La nave di Teseo


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