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Mario Draghi

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La verità è che oggi il salvatore dell’euro deve salvare l’Italia e non può farlo da solo. Perché da soli non si fa mai nulla. Perché questa impresa è più complicata di quella già realizzata che appartiene alla storia. Eppure è sempre più netta la sensazione che oggi sia possibile. A patto che si guardi in faccia la realtà esattamente come ha fatto Draghi con il suo discorso-verità all’assemblea degli industriali. Ora tocca a imprese e sindacati, ma tutto dipenderà dalla capacità di attuare i programmi e di fare le cose dimostrando di essere cambiati

Ci sono dei passaggi della storia che chiedono di essere riconosciuti perché le cose accadano. Perché la storia voluta si compia. Perché la Nuova Ricostruzione si realizzi e i capi dei partiti quasi senza accorgersene liberino la testa dall’oppio della fuffa del talk italiano. Quello che sta con il cervello e con i piedi ben piantati nelle sabbie mobili della propaganda. Dentro un teatrino delle maschere che scava sotto terra negli scantinati della irrealtà e condanna il Paese alla invidia sociale, alla miseria e alla divisione.

Ci sono dei passaggi della storia che chiedono di essere riconosciuti, lo ripeto, perché le cose accadano. Perché siano riunite con le opere immateriali e materiali le due Italie. Perché ne siano amalgamati il capitale umano e le intelligenze dando al gusto del futuro la pienezza di un sogno avverato che colma le disparità territoriali, generazionali e di genere. Perché il sindacato esca dall’antagonismo e riprenda il filo spezzato di un uomo come Marco Biagi che guardava lontano e ha pagato con la vita il desiderio di aiutare chi ha meno di tutti e la visione lungimirante di fare inclusione. Che è l’esatto opposto dell’esercizio regionalista italiano aggravato e continuato di fare assistenza ai ricchi togliendo ai poveri.

Questa è la sensazione multiforme che mi è rimasta dentro ascoltando in sequenza la relazione del presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, e l’intervento del Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Non c’è nulla di nuovo rispetto a quello che i lettori di questo giornale hanno potuto leggere negli ultimi mesi, ma c’è molto da capitalizzare perché il cambiamento sia effettivo e il miracolo della crescita a tassi cinesi si incammini sui binari strutturali di una crescita sostenibile, duratura e mai più diseguale.

Mario Draghi è l’uomo che ha avverato la profezia di Carlo Azeglio Ciampi (“Non voglio premere il bottone perché me lo ordina la Bundesbank, ma voglio concorrere con tutti gli altri Governatori europei a decidere se alzare o abbassare i tassi”) e ha fatto l’atto risolutore della grande crisi dell’euro. Che una pubblicistica encomiastica-frettolosa liquida con tre parole (whatever it takes, costi quel che costi) omettendo il coraggio e la forza di un gesto nascosto ai ghost-writers che si cela dietro quelle tre parole e che esprime, al meglio, la principale qualità richiesta a un banchiere centrale. Che è quella di fare la mossa giusta nel momento giusto. Si liquidano superficialmente la solitudine e la determinazione di quel gesto compiuto senza avere in tasca un mandato del direttivo della Banca centrale europea non richiesto probabilmente proprio perché non sarebbe arrivato.

Visto che il governatore della Bundesbank voterà sempre contro le proposte di Draghi anche se non conterà mai nulla (profezia di Ciampi avverata) tranne una sola volta. Votò anche lui a favore, per capirci, quando si decise provvisoriamente di chiudere l’esperienza del quantitative easing.

Chi legge questo giornale sa che in tempi non sospetti abbiamo definito Draghi il nuovo De Gasperi nel segno di quella politica del fare della prima ricostruzione che restituì l’onore agli italiani facendoli uscire dal carisma della menzogna (parole di Draghi nella lectio su De Gasperi al teatro sociale di Trento di un po’ di tempo fa) delle grandi dittature e dei guasti da loro prodotti e mettendo, altresì, le basi per trasformare in un tempo relativamente ristretto un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica mondiale.

Il Paese ha bisogno della visione e della mano ferma del cittadino europeo più stimato nel mondo che ha dentro di sé i segni culturali e i tratti comportamentali delle azioni di governo di De Gasperi e di Ciampi, così distanti e così diversi tra di loro, ma che farà quello che si deve fare oggi, non quello che si dovette fare allora. Perché la storia assegna compiti sempre nuovi e esige soluzioni sempre nuove. Ci inchiniamo davanti alla lezione morale di Baffi di cui conosciamo in profondità la sofferenza “da cui mai si riebbe” attraverso lo struggimento dei figli, ma che appartiene alla malattia di un sistema giudiziario italiano che riguarda una parte minoritaria ma potente della pubblica accusa che non ha mai smesso di colpire gli uomini migliori del Paese a causa della pericolosità di alcune regole del processo italiano e della infima qualità di chi quelle regole esercita a proprio uso e consumo sfruttando le vaste aree di arbitrarietà. Francamente l’evocazione di Baffi da parte di Bonomi in mezzo tra De Gasperi e Ciampi con riferimento a Draghi, ci è parsa encomiabile per il rispetto che l’uomo Baffi merita e l’esempio che per tutti rappresenta, ma un tantino forzata nel contesto di rievocazione di azioni di governo che rispondono ai bisogni delle persone e generano fiducia contagiosa con le loro scelte e i loro comportamenti.

La verità è che oggi il salvatore dell’euro deve salvare l’Italia e non può farlo da solo. Perché da soli non si fa mai nulla. Perché questa impresa è più complicata di quella già realizzata che appartiene alla storia. Eppure è sempre più netta la sensazione che oggi sia possibile. A patto che si guardi in faccia la realtà esattamente come ha fatto Draghi con il suo discorso-verità all’assemblea degli industriali. Quando ha detto a braccio che potrà sembrare “arido” e poi ha detto “banale”, ma invece proprio di qui, dalla capacità di attuare i programmi e di fare le cose, si deve passare se si vuole cambiare. Quando ha detto in modo chiarissimo che la sfida del Mezzogiorno è la sfida dell’Italia e dell’Europa e che si deve vedere il segno del cambiamento nella banda larga ultra veloce come nei grandi porti, nella grande logistica e nella economia del mare.

Nel riferimento costante alle disparità territoriali, di genere e generazionali, c’è il tratto più lucido della coerenza meridionalista degasperiana di un uomo come Draghi che rifugge naturalmente dalla retorica come naturalmente appare attaccato alle cose che si vedono, che si possono toccare, che devono avvenire. Che sono un Sud “più forte e meglio connesso con il resto del Paese nell’interesse dell’Italia e dell’Europa”. Che sono un Paese che fa le riforme di struttura, dalle semplificazioni alla giustizia penale e civile, e che monitora ogni giorno con strumenti nuovi perché quelle riforme si traducano in atti e comportamenti concreti, verificabili, di lunga durata. Che sono le espressioni di un uomo che ha un po’ di pudore a usare la parola patto, preferisce prospettiva di lungo termine, ma poi dice anche patto purché si capisca che le forze produttive e sociali debbono ripartire da quando il giocattolo italiano si è rotto e che hanno nelle nuove relazioni industriali e in un’idea nuova e condivisa di Paese il loro banco di prova.

La sfida che l’Italia ha oggi di fronte è molto più complicata di quella che il capo del governo Ciampi affrontò e vinse con l’accordo sulla politica dei redditi (lui lo chiamava “il macchiavello”) che spezzò la giostra sterile tra prezzi e salari e fece uscire il Paese dalla triste spirale italiana inflazione-svalutazione-inflazione. Oggi serve qualcosa di molto più ambizioso perché i problemi interni sono molto più numerosi e il quadro geopolitico con il nuovo ’29 mondiale molto più complicato. Serve a maggior ragione essere uniti in casa per non aggiungere incertezza interna a quella esterna. A noi basterebbe in partenza che Landini faccia oggi con la Cgil di oggi quello che fece allora Trentin con la Cgil di allora. Servono lo stesso coraggio e la stessa intelligenza. Quante volte ne ho parlato con Ciampi, quante volte abbiamo rievocato e commentato insieme! Non mi è possibile togliere dalla mente il ricordo personale di quanto rispetto e di quanta ammirazione Ciampi provasse nei confronti di Trentin dopo tanto tempo e in sua assenza. Sono i “miracoli” che restano perché appartengono alla storia. Quelli di cui oggi abbiamo vitale bisogno e dai quali nessuno si può tirare fuori.


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